Per scrivere queste poche
pagine mi ero ripromesso di fare un breve e circoscritto viaggio della memoria
in un paese dell’Abruzzo di nome Pizzoli. Si trova in provincia di L’Aquila,
nella zona della Valle dell’Aterno, lungo la strada che conduce al Parco Nazionale
del Gran Sasso e Monti della Laga. E’
forse sconosciuto ai più, anche se ci troviamo in una zona popolata fin da
epoche remote, dove ai piceni ed ai sabini si sono succeduti i romani che
fondarono, a pochi chilometri di distanza, la città di Amiternum di cui
rimangono, oggi, alcune vestigia ed il ricordo di aver dato i natali allo
storico Sallustio.
Pizzoli è un po' più in là,
piccolo centro disassato rispetto alla viabilità principale e in una sorta di
terra di mezzo, in quanto la vicinanza con la città di L’Aquila attrae
interessi, attività e persone e lascia
poco spazio a tutto il resto.
Lo devono aver pensato anche
le autorità fasciste allorquando, in un periodo tragico della nostra Storia, vi
inviarono al confino, per motivi politici e razziali, Leo e Natalia Ginzburg ed i loro tre figli.
Pizzoli fu, per circa tre anni, il luogo ove questa famiglia di intellettuali
condivise con la popolazione locale il vivere quotidiano, semplice e ripetitivo, scandito dal succedersi delle stagioni. Il mondo
contadino, semplice e frugale, accolse e in qualche modo custodì la presenza
dei Ginzburg, cittadini, pensatori, oppositori del regime dittatoriale,
estranei, all’apparenza, ad un vivere
fatto di duro lavoro, di famiglie raccolte intorno al fuoco in inverno, di usi ed abitudini diverse. Il diario di
quei giorni fu raccolto da Natalia in un breve racconto “Inverno in Abruzzo”
che è un meraviglioso e discreto sguardo su un mondo che ci siamo lasciati, ormai,
alle spalle. L’incipit del racconto esordisce con: "In Abruzzo non c’è che due
stagioni: l’estate e l’inverno” e si dipana in una serie di immagini vivide che
colgono l’essenza di volti e persone, ma anche stati d’animo: “ci si riuniva
tutti nella stanza dove c’era la stufa, e lì si cucinava e si mangiava, mio
marito scriveva al grande tavolo ovale, i bambini cospargevano di giocattoli il
pavimento. Sul soffitto della stanza era dipinta un’aquila: e io guardavo
l’aquila e pensavo che quello era l’esilio. L’esilio era l’aquila, era la stufa
verde che ronzava, era la vasta e silenziosa campagna e l’immobile neve”.
L’epilogo di quella vicenda
fu, purtroppo, tragico. Rientrati a Roma nel 1943, Leo Ginzburg venne
arrestato, torturato ed ucciso nel carcere di Regina Coeli. Le parole di
Natalia, concludono così il racconto: ”Mio marito morì a Roma nelle carceri di
Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all’orrore
della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero
la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli
aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un
avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni
imprese. Ma era quello il tempo migliore
della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so”.
A questo punto, vorrei
spostare l’attenzione del lettore su altri piani, apparentemente distanti. Il
mio viaggio fino a Pizzoli, al momento, è solo immaginario, poiché stiamo
vivendo un’epoca complicata e al tempo stesso drammatica: l’epoca del Covid.
Che non ha alla base motivazioni politiche o ideologiche, non conosce confini
amministrativi o barriere linguistiche, ma ha prodotto per tutti noi
conseguenze che sembravano impensabili fino a poco tempo fa. Per quanto possa
sembrare strano e paradossale, il virus ci ha posti tutti quanti al “confino”.
Ha ridotto le nostre attività e i nostri spostamenti, ha chiuso le scuole e gli
spazi di scambio culturale, ha inciso sulla salute di migliaia di persone. La
socialità si è trasformata in qualcosa di diverso: è stata compressa e negli
scambi interpersonali si è aggiunto un elemento di angoscia e diffidenza. Siamo
tutti potenziali vettori della malattia. E, dunque, dobbiamo stare distanti,
relegati. Persino un abbraccio, una stretta di
mano sono visti e vissuti con sospetto. Queste sensazioni che stiamo
vivendo hanno elementi in comune con l’esperienza subita dai Ginzburg, anche se
le cause e gli effetti sono chiaramente distinti e diversi. Il loro “confino”
politico e il nostro “confino” per motivi sanitari provocano le stesse
sensazioni di incertezza, paura, distanza, straniamento. La contrapposizione
tra noi e loro. Con la differenza che per quella famiglia essere minoranza e “caso eccezionale”, nucleo
da allontanare affinché non diffondesse idee contrarie a quelle del regime, aveva un peso ancora maggiore e schiacciante. Eppure,
come viene vissuta, oggi, dai diretti protagonisti toccati dal Covid l’esperienza
di essere definito “paziente zero”, aver contratto la malattia o aver
contagiato altre persone? Queste persone
avranno trovato la stessa solidarietà e comprensione che i Ginzburg trovarono
nella piccola comunità di Pizzoli, così distante da Roma, dalle decisioni
politiche, dai destini che hanno interessato l’umanità ?
A queste domande è difficile
dare una risposta. Il parallelo che ho proposto potrà apparire, ai più,
azzardato, ma nel mio confino di questi mesi, un viaggio che mi ero ripromesso
di fare non può essere compiuto. Non potrò visitare Pizzoli, attualmente zona
rossa (come gran parte del Paese), le sue vie strette e silenziose, né
soffermarmi davanti alla casa dei Ginzburg, né entrare nella biblioteca
Comunale a loro dedicata, che custodisce un bel lascito di libri e scritti. Né potrò
raggiungere a piedi i due alberi monumentali, due roverelle, che si trovano nel
circondario del paese. Un piccolo tesoro
custodito oltre i muretti di pietre bianche.
Piante longeve, le cérche, cresciute o messe a dimora vicino ai centri urbani. Il loro legno duro e
tenace era molto utile per le costruzioni, ma soprattutto è un ottimo
combustibile. Che dire poi delle proprietà medicinali, riconosciute a questa
specie? L’infuso di corteccia era usato come febbrifugo e astringente. Il
decotto per far guarire le ferite. E nei periodi di carestia la farina delle
ghiande veniva usata per preparare il pane.
Il mondo contadino è sempre
stato parsimonioso ed attento. E nella Natura ha cercato, in un rapporto di
mutualistico scambio, risorse e sostentamento. Rievocando quei tempi distanti
viene forse da sorridere, forti delle nostre conoscenze scientifiche avanzate,
sui riti arcaici che legavano uomini e piante, specie in ambito di cure. In
particolare, in alcune zone dell’Abruzzo era in uso, per guarire dall’ernia,
far passare il paziente nudo, attraverso una spaccatura praticata nel tronco di
una giovane Quercia. Lo spacco rimarginato, preludeva alla guarigione. Gli
esiti, forse, non erano così scontati, ma è innegabile che, almeno da un punto
di vista metaforico, la rottura della Quercia va intesa come forza risanatrice:
per una proprietà transitiva le parti
rotte del vegetale si sarebbero dovute innestare su quelle del malato. Oggi
sappiamo, grazie e numerosi studi scientifici, che le piante in realtà hanno
una forza rigeneratrice utilissima anche per l’uomo. Che una passeggiata in
bosco ha effetti vivificanti sul nostro benessere e sulla nostra psiche. E che
numerosi principi attivi possono essere ricavati dal mondo vegetale e
trasformati in medicine, a conferma che i nostri progenitori, per nulla
scolarizzati, avevano un contatto ed una capacità di osservare e utilizzare la
Natura molto più profondo e chiaro di quanto spesso siamo noi oggi in grado di
fare.
Non sarà certo un albero
monumentale a portarci fuori dalla pandemia. Né le roverelle di Pizzoli
hanno evitato alla famiglia Ginzburg gli
esiti funesti della repressione. Ma gli alberi ci possono venire ancora una
volta incontro, in questo giorno di primavera, per il loro alto valore emblematico.
La loro resistenza, forza, pervicacia, adattabilità, generosità, sono tutte
qualità che in qualche modo possiamo riconoscere, mutuare e richiamare negli
episodi che ho voluto raccontare, sia
pure in modo così approssimativo. Sono il segno della rinascita, del ciclo
vitale che riprende dopo ogni inverno (anche quello delle sofferenze umane).
Donano anche frutti di memoria e di
consapevolezza e sotto queste fronde mi piace ricordare Leo, Natalia e tutti
quanti noi, sconosciuti spettatori o
protagonisti delle vicende correnti. Potrebbero apparirci estranei ed, invece, sono come dei silenziosi
segnalibri, sorta di pietre d’inciampo che ci aiutano a riannodare fili e a
raccontare storie. Nei loro anelli sono incisi gli accadimenti
del tempo. A loro vorrei dedicare queste ultime parole, tratte dal libro “Il
tempo degli Alberi” pubblicato, ormai più di vent’anni fa, da Alfonso
Alessandrini, già Direttore Generale del Corpo Forestale dello Stato:
“Sono alberi veri, eroi del
passato, guerrieri del presente, avamposti della vita, protagonisti della
storia e della leggenda, indicatori del tempo, della civiltà, simboli del
costume, punti di riferimento per uccelli, pastori, monaci, soldati, amanti,
mercanti, artisti, mendicanti, bracconieri e briganti. Sono alberi che non
passano inosservati, anche le stelle ed i satelliti li stanno a guardare”.
Le loro mille primavere sono
anche le nostre.
Bibliografia
A. Alessandrini “Il tempo
degli alberi” – Edizioni Abete Roma - 1990
G. Pirone “Alberi arbusti e
liane d’Abruzzo”, pag.-247-250 - Cogecstre edizioni, Penne - 2015
L. Fenaroli – G. Gambi
“Alberi – Dendroflora italica”, pag.385-387 - Museo tridentino di scienze
naturali, Trento - 1976
N. Ginzburg, “Inverno in Abruzzo” scritto a Roma nel 1944 e pubblicato sulla rivista Aretusa (1944 - 1946)
"Le Piccole Virtù", Einaudi, 1962
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Foto: Comune di Pizzoli e Abruzzo Turismo
Foto di copertina Castello Dragonetti de Torres, Pizzoli. Foto di Eliia • Fogliadini (dalla pagina fb del Comune di Pizzoli)