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Paesaggi sublimi nella fiaba. Le foreste tra smarrimento e stupore

21 Aprile 2021
Paesaggi sublimi nella fiaba. Le foreste tra smarrimento e stupore
di   Foto: Carla Lomi Carla Lomi

Il contatto con la natura e la sua forza benefica e primordiale, spesso provoca un cambiamento che si colora di stupore, che consente di sconfiggere il terrore atavico originariamente provato nell’isolamento del bosco.

La fiaba è ambiente che tutto di noi accoglie. L'inconscio, emergendo dal profondo, s'imprime nelle sue forme nitide ed elementari di racconto universale. La coscienza, ad ogni età, vi ritrova luoghi familiari; l'immaginazione vi spazia, incalzata dalle paure, richiamata dai desideri e si riconosce nuova là dove gli opposti trovano dimora. Percorrendo le vie della fiaba la volontà viene maternamente educata dalle peripezie e prove che l'eroe o l'eroina fiabica devono affrontare per resistere alla ferocia e respingere gli agguati del male; ma soprattutto il cuore s'accende di speranza al cospetto di magici aiutanti, pronti ad offrire doni preziosi al viandante e la possibilità di far ritorno a casa dopo che il desiderio più alto è stato realizzato.
La fiaba svela il momento maestoso, solenne della vita fissando i paradigmi dell'esistenza: la meta per ogni uomo è la felicità; premio ambito e impegnativo che conquista chi supera lo sgomento dello smarrimento e trova il senso di quel perdersi che è condizione d'origine e soglia segreta di ogni rivelazione. Avventurarsi verso l'ignoto, attraversare i paesaggi fiabeschi è dunque essenziale: è entrare in una dimensione arcaica che rende paradigmatici i racconti. Lo spazio rappresentato nella fiaba – la casa, la strada, il castello - è generico, ricondotto al tipico e all'essenziale, è realistico e astratto al tempo stesso, ha forma archetipica, quasi onirica che gli conferisce un carattere sempre significativo e universale.

Seguendo i percorsi ben tracciati della fiaba incontriamo ambienti a lungo considerati inospitali, ostili, desolati - le foreste e gli alti monti, le isole lontane e i deserti - quali momenti salienti di un viaggio di esplorazione, intimamente connesso con i moti più elevati della coscienza, che è spaesamento, discesa agli inferi, presupposto di ogni possibile elevazione. Perturbanti e simbolici, silenziosi e solitari quegli stessi spazi avvicinano i protagonisti delle fiabe, e assieme a loro i lettori, al cospetto della grandezza della natura, a scoprire la dimensione luminosa o notturna dell’incommensurabile e dello smisurato presente nella realtà terrena.
In questi spazi, lontani dalla civiltà, inquietanti ma anche promettenti, perché dotati di una forza e profondità che avvince e incanta, il protagonista fiabico misura le sue forze, prova fino in fondo la paura, la vulnerabilità, il rischio. In questa sfida si fortifica, scopre un mondo numinoso, s’appropria di tesori.

È interessante rilevare che, nel repertorio fiabistico, i luoghi selvaggi sono spesso emblemi del meraviglioso che atterrisce ed esalta, che incute terrore o genera stupore, che scuote l’anima e la solleva a contemplare le vette dell’esistente. "La lontananza geografica sembra dunque essere per la fiaba l’unico mezzo legittimo per esprimere ciò che è spiritualmente diverso. [...] Ciò che è differenziato spiritualmente viene proiettato su di un’unica linea e la lontananza interiore viene espressa nella distanza esteriore".[1] Nella fiaba il viaggio diviene la metafora di quell’andare al di là di quanto si conosce, di ciò che si è, in terra straniera, ardua e lontana, conquistata con prove di iniziatico valore per attingere ad un sapere che resta nel tempo.

Ci sembra allora che le fiabe e i loro paesaggi selvaggi (dalla forte caratura simbolica ma dal significato accessibile anche ai bimbi, agli illetterati e a tutti coloro che la vita ha costretto ad una dimensione angusta) abbiano potuto costituire, attraverso la parola che turba, rapisce, fortifica vie di accesso all’arduo, esemplare mondo del sublime.

Sublime, lo sappiamo, significa “eccelso”, “in senso spirituale, intellettuale, morale, ed estetico”, indica “la manifestazione della bellezza e della grandezza nel loro più alto grado” [2], origine e conseguenza di un “movimento verso l’alto”, di una “elevazione” che non è solo l'espressione di un desiderio e di una disposizione del soggetto, ma l'effetto dell'azione di un agente che consente di trascendere la condizione emotiva ordinaria.

Come la stessa etimologia dimostra [3], il sublime rimanda ad un contrasto: trae origine da una condizione segreta, sotterranea, inconscia, ma irrompe nella coscienza per effetto di un incontro con profondità vertiginose e abissi che elevano l'animo. È il pathos una delle sorgenti fondamentali del sublime, assieme allo slancio esuberante dei pensieri, ma altri fonti sono date dallo stupore che nasce al cospetto della grandezza e del predominio della natura. L'irrompere di una dimensione spaesante, legata al senso del proprio limite e all'esperienza del terrore e della morte, suscita nel soggetto la coscienza della propria nudità e del proprio bisogno di autosuperarsi. Così l'esperienza del sublime dà origine infatti ad un sapere che trasforma e rende intellettualmente e moralmente diversi, superiori. Un'originale via al sublime ci sembra allora percorrere i vasti confini del patrimonio fiabistico: la fiaba è luogo d'elezione del meraviglioso che atterrisce ed esalta, sollecita il desiderio e nutre la mente, rivelandoci a noi stessi. Così questo universo, affidato alla parola che risuona nell'intimo del soggetto, rivela la propria efficacia a chi, come il protagonista della fiaba, riconosce il proprio turbamento, si apre al rischio, risponde ai desideri, sceglie il viaggio che avvicina alle vette dell'esistenza.

Ora non potendo prendere in esame l’intera gamma dei paesaggi sublimi presenti nelle fiabe, ci limiteremo ad osservare immagini di boschi e di foreste[4], luogo da sempre di iniziazioni.

La loro rappresentazione li colloca nell’ambito dei luoghi orridi (loci horridi), sfuggono al dominio dell’uomo, sono sconfinati e desolati, privi di proporzione e di armonia, pericolosi e inquietanti. Con le loro ombre e i rami contorti degli alberi incutono paura, talvolta terrore; mantengono un eco di presenze lontane e misteriose; percorrendoli ritorna, nel viaggiatore solitario, il tremito sacro delle selve: sono lo spazio del pericolo, dell’ignoto, degli agguati.

Spesso nelle fiabe il motivo della foresta si collega a quello della notte, del buio, dell’oscurità, condizioni che propiziano la scoperta del sublime, come Burke, nella sua Inchiesta[5] ha dimostrato. Nell'opera Lo cunto de li cunti di Basile, sono innumerevoli le immagini che segnalano questo stretto rapporto: “Fu trascinata in un bosco dove gli alberi facevano da palizzata ad un prato perché non fosse scoperto dal sole[6]; “arrivato in un bosco dove sotto la pergola delle fronde le ombre si riunivano per organizzare un monopolio e allearsi contro il sole[7]; “un giorno la fortuna lo condusse in un bosco, che aveva preparato uno squadrone di terra ed alberi fitto fitto per non essere messo in fuga dalla cavalleria del sole[8].

Le foreste sono anche il luogo dell’illecito. Basterà pensare a Cappuccetto Rosso che, propria nella foresta, impara la necessità di non abbandonare la via maestra, dopo aver fatto esperienza dell’ambiguità di questo spazio simbolico.

Se il bosco, con i suoi incontri inattesi che divengono folgorazioni, consente di accedere e leggersi entro la condizione dell’abbandono, è proprio lo scacco dell’io, che si lega all’esperienza dell’essere ghermiti, afferrati, la condizione che rende partecipi dello stupore e dell’incantamento.

Infatti il contatto con la natura e la sua forza benefica e primordiale, spesso provoca un cambiamento che si colora di stupore, che consente di sconfiggere il terrore atavico originariamente provato nell’isolamento del bosco.

Nella fiaba Il mercante tratta ancora dalla stessa opera di Basile, Cienzo, il protagonista, avendo guai con la giustizia, deve allontanarsi dalla città e dai suoi affetti. Si inoltra così nel bosco, in spazi sconosciuti e bui dove avviene l’incontro con la fata: : "e, arrivato ad un bosco solitario e deserto che ti faceva storcere la bocca tanto era scuro, trovò una fata sulla riva di un fiume – che per far piacere all’ombra di cui era innamorato, faceva evoluzione nei prati e le giravolte sulle pietre – e un branco di malandrini le erano intorno per levarle l’onore" [9]. Dopo questo incontro che lo incanta ed impegna, Cienzo ritrova faticosamente la voce della coscienza, dà prova del suo valore, recupera l’etica nobile del cavaliere.

Anche in Petrosinella (più nota come Prezzemolina) la parte centrale della storia si svolge in un bosco, simbolo di isolamento e luogo di incantesimi, che rimandano misteriosamente alle leggi dell’inconscio: la madre di Petrosinella ha contratto un debito con un’orca, così questa s’impossessa del destino della figlia: "L’orca le afferrò i capelli e se la portò in un bosco – dove non entravano mai i cavalli del sole, per non pagare l’affitto per quei pascoli delle ombre – chiudendola in una torre che fece sorgere con un incantesimo, senza porte, senza scale, solo con una finestrella, dalla quale lungo i capelli di Prezzemolina, che erano lunghissimi, saliva e scendeva come fa di solito il mozzo nella nave sulle sartie dell’albero" [10]. Sarà tuttavia questo luogo solitario il teatro dell’incontro della ragazza abbandonata con il principe che cambierà la sua sorte.

La foresta, figura dell'intrico che suscita paura, in molte fiabe, inverte segno e direzione e diviene specchio di una natura benefica, teatro di gioia e bontà. Ne abbiamo un esempio in una fiaba di Luigi CapuanaIl racconta-fiabe” (tratta dalla raccolta omonima) dove questa metamorfosi è evidente: "Sopravvenuta la notte, si stese sull'erba, sotto un albero, per dormire, ma non potè chiudere occhio: aveva una gran paura. Gli pareva che le piante, con lo stormire delle fronde, parlassero sotto voce fra loro; gli pareva che le bestie e gli uccelli notturni, con quei loro strani gridi e canti tramassero qualcosa contro di lui. Il cuore gli batteva forte nel petto, e non vedeva l'ora che fosse giorno. Alla mezzanotte in punto, che vede? Vede una gran luce nel bosco, e da ogni pianta sbucava fuori gente che rideva, che cantava, che ballava; e intanto da tutte le parti venivano rizzate prontamente tante bellissime tende e tavole piene di cose non mai viste, che luccicavano più dell'oro. S'accorse di essere capitato in mezzo alla fiera delle fate.".[11] 

Le fiabe sono ambiente che consentono di fare esperienza del sublime quale effetto di un desiderio e dell'azione della parola che custodisce saperi e crea mondi, sollevando verso l'alto l'animo di chi attraversa paesaggi  incantati e selvaggi .

Carla Lomi

 Riproduzione riservata © Copyright I Parchi Letterari

Immagine di copertina da Emma Perodi, "Le novelle della nonna" (1892)


[1] M. Lüthi, La fiaba popolare europea, Mursia, Milano, 1979, p. 19.
[2] G. Devoto, G. C. Oli,  Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, Firenze, 1971.
[3] Sublime in greco è ïcow (hypsos), “ciò che è altissimo”; in latino il termine “sublīme(m)  composto da sub, inteso da alcuni come super, e limen (genitivo liminis) “limite, soglia”, indica “qualcosa di altissimo che sta sopra l’architrave della soglia di casa”; ma, poiché il termine si fa derivare solitamente da sŭb “sotto” e dall’aggettivo līmus, “obliquo”, significa propriamente “che sale dal basso obliquamente”, “che va sollevandosi, che si sostiene in aria”. È altrettanto interessante rilevare che, secondo altri, l’origine del termine è da ricondursi a sub limo, che significa “sotto il fango”, esprime dunque qualcosa di profondo, nascosto dalla banalità della superficie.
[4] Come la radice etimologica segnala, la foresta è il luogo altro, dove ci sentiamo forestieri. Il termine deriva infatti dal latino medievale foris che significa “fuori” , e indicava in origine i boschi situati fuori dalle mure di un castello o di una città. Nell'India brahmanica il termine sanscrito aranya, tradotto come foresta, deriva da avana (termine sua volta collegato alla radice indoeuropea alius, alter, ille) che significa “strano”. Aranya in quella lingua è l'altro rispetto al villaggio, un luogo coperto di alberi dove non si pratica l'agricoltura. Anche la lingua italiana segnala la connessione tra foresta e forestiero, tra selva e selvatico.
[5] E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, Aesthetica, Palermo, 1985.
[6] G. Basile, Lo cunto de li cunti, (traduzione di M. Rak), I grandi libri Garzanti, Milano, 1998, p. 113.
[7] G. Basile, op. cit. p. 126.
[8] G. Basile, op. cit. p. 817.
[9] G. Basile, op. cit. p. 147.
[10] G. Basile, op. cit. pp. 287-288.
[11] L. Capuana, Tutte le fiabe, Milano, 1983, pag. 142.


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