La cucina
letteraria: la filiera della castagna
Castagne,
castagne e ancor castagne. Per generazioni di montanini la castagna è stata l’alimento
di ogni giorno. Pan di legno e vin di nuvoli, sintetizza un detto. Acqua
e farina di castagne. Una pseudofarina, per Fernand Braudel, in grado
però di garantire il pane quotidiano. Bastava un calo, anche minimo, nella
produzione “per provocare una crisi alimentare, se non addirittura una carestia”,
scrive Federico Minneccia. “La castagna allontana e trattiene insieme:
trattiene per la facilità della raccolta, allontana per l’insufficienza della
sua quantità” scrive nel 1910 il sociologo francese Paul Roux.
Per Pellegrino
Artusi è “alimento poco costoso, sano e nutriente per chi non abbia paura della
ventosità”.
Negli anni ’30
del Novecento la castagna è ancora presente nella dieta quotidiana, soprattutto
nella forma di neccio: “stracciatella
di farina di castagne cotta tra due testi arroventati”, si legge alla voce nel
dizionario Petrocchi. Il boscaiolo lo porta con sé al posto di una fetta di
pane. Caso mai incicciato, con il rigatino o la salsiccia.
Il ciclo della
castagna ha inizio dalla cura del castagneto. Il padre di Policarpo gli ricorda
che all’inizio dell’autunno “ … bisognerà far ripulire la selva, far fare le
fosse per bene, se no mezze castagne se ne vanno”. La raccolta impegna tutta la
famiglia, con l’aiuto dei “ricoglitori”, e le castagne si portano nel metato,
un edificio in pietra, dove per giorni arde lentamente un fuoco che
prosciuga il frutto bloccando così lo sviluppo di spore fungine che lo
altererebbero.
Il metato è
un luogo sociale. C’è caldo e la sera vi si va a veglia. “Nell’ottobre – scrive
sempre Policarpo “le conversazioni nei metati si fanno senza lume; il lume è
una stonatura (…). Il fumo arriva fin’a mezza alla stanza; per non affogarci
bisognava andarci gobboni; nel mezzo o da una parte brucia una catasta di pezzi
di ciocchi; e quel rosso che esce di sotto illumina tanto o quanto le facce
delle persone e tanto o quanto le lascia nell’oscurità; due cose giovevoli,
perché anche i brutti ci fanno figura. Quand’è un po’ che ci siamo accocolati,
si comincia a distinguere i visi, paion figure in que’ quadri dal fondo nero
de’nostri antichi; e lì bassi non noiati dal fumo, al caldo, mentre fuori verrà l’acqua a rovescio o
fischierà il vento che butterà giù tutte le castagne, la conversazione s’anima;
mille cose si raccontano, si sguscia delle bruciate, qualche volta in un canto,
una coppia trova il verso di far la sera quello che non può fare il giorno; al
lume incerto del foco, allungando le teste, auzzando gli occhi su quelle carte
più nere che bige, gobboni, giocano una partita a briscola o scopa”.
In occasione
delle feste dei Morti si raccolgono le castagne ormai essiccate e si portano al
mulino, un altro luogo di socialità, per trasformarle in farina. Alla fine di
ottobre tutto è concluso e gli uomini possono prepararsi ad emigrare nelle
Maremme.
Nelle case resta
la farina conservata ben pressata nelle madie per farne polenta dolce,
frittelle, castagnacci ma ancora castagne declinate in mille modi, come afferma
Policarpo: “… le mondine senza buccia e senza sanza che si mangiavan come
minestra, i mondoloni senza buccia e colla sanza, le ballotte, le bruciate”.
Le bruciate, sono
le caldarroste che si possono mangiare ancora oggi in montagna e non solo, così
come i necci, i ballotti e il castagnaccio. Quella della
farina di castagna è oggi una produzione ricercata e di nicchia. In alcuni
paesi è possibile, in autunno, visitare un metato acceso.
Terra di
pastori, l’Appennino Pistoiese è ancora area di pecorini che si distinguono,
seppur con varianti minime, da paese a paese. Quello a latte crudo è un
presidio Slow Food.