Chissà se nasceranno mai Parchi letterari di tutti quei mondi, paesaggi, mappature che si sono sovrapposti al paesaggio reale? Spazi virtuali, immaginati e immaginari, materializzati con il linguaggio informatico, paesaggi da attraversare con la sola forza del respiro, facendo una leggera pressione su un joystick, ma anche paesaggi che prendono forma dalla visualizzazione dei dati e che creano delle meta-mappature di ogni cosa che interessa, o sembra interessare, le nostre vite: il clima, l’economia, il tempo libero. Ma dove si collocano questi paesaggi? Come li possiamo celebrare se non esistono veramente, frutto temporaneo di un gioco di prestigio del linguaggio informatico? O possiamo invece pensare che esistono in altre forme di materialità? È ancora tutto da scoprire.
Come prima cosa, potremmo rallentare la giostra della grande accelerazione del progresso tecnologico, e cercare di afferrare la materia che costruisce questi mondi. Si scoprono insistentemente tornare, sempre e ovunque, parole e linguaggio. Il linguaggio, in tutte le sue forme, scritte parlate, genetiche, algoritmiche, della comunicazione, è, a tutti gli effetti, materia che costruisce mondi; quelli virtuali che attraversiamo oltre i nostri schermi non sono altri che una delle sue tante configurazioni. Il linguaggio, scritto, parlato, ma anche visivo, che utilizziamo nel nostro quotidiano vivere funziona da interfaccia, porta verso questi altri mondi. Ogni parola digitata su un motore di ricerca potrebbe costruire un parco, un paesaggio che prende forma dalle associazioni semantiche di immagini, testi e video che risultano. In un movimento contrario, i dati possono essere sintetizzati e visualizzati in mappe tracciate da confini che si esprimono in interessi di ogni tipo, destinati a ad espandersi continuamente.
Il linguaggio non è solo il nostro. E’ anche quello con il quale comunicano le radici degli alberi nelle foreste; è quello delle vibrazioni della tela del ragno che agisce come vera e propria intelligenza, e una delle più efficaci. Linguaggio è quello delle vibrazioni del cosmo che hanno parlato a noi dei buchi neri, tradotti visivamente da processi algoritmici durati anni. Le parole rilasciate dai media, come ‘fotografia’ o ‘scatto’, hanno poi intrappolato questi processi nell’immagine di una scoperta improvvisa, di una materia catturata (e catturabile) da un obiettivo, piuttosto che immaginata (ma qui, parola agli scienziati).
Abbiamo avuto prova del potere del linguaggio di creare mondi. La parola è già di per se un mondo. Chiudiamo gli occhi per un momento e cerchiamo di visualizzare la cloud, termine inglese entrato nell’ uso comune per indicare il luogo dove sono conservati i nostri dati. Non importa quanti articoli abbiano già svelato quanto poche siano le banche dati distribuite nella geografia globale e quanto assetate siano delle elettricità che le alimenta dal sottosuolo. La risposta percettiva rimane ‘ancorata’ a quella nuvoletta che galleggia nell’atmosfera e all’immagine dei dati che, leggeri, evaporano al tocco di un click. E quando ritroviamo la descrizione del sistema solare, dei buchi neri, dei fenomeni climatici nella parola ‘iperoggetti’, coniata dal filosofo ecologista Timothy Morton, ci rendiamo conto che il nostro sguardo deve trovare un adattamento tutto nuovo. Una sola parola ha la forza di scaraventarci fuori dalla griglia prospettica, di visualizzare il nostro punto di osservazione interno alle cose. Con la stessa forza il Bacino del Mediterraneo aveva racchiuso nella sua definizione e, in una unità indiscutibile, regioni della più grande varietà e diversità di culture e tradizioni. Anche l’espressione ‘Parco letterario’ sembra godere di una simile forza.
Si libera immediatamente nella nostra mente per trasformarsi nella geografia dell’autore al quale appartiene; riconduce alla sua vita, ai luoghi che lo hanno ispirato e che continuano ad ispirare.
Ma noi stavamo parlando dei mondi virtuali e del linguaggio come materia che ritroviamo come struttura portante in ciascuno di questi multi-versi liquidi. Torniamo, quindi, nel territorio ancora a noi sconosciuto (in termini di consapevolezza), il cyberspazio, questo mondo liquido che dalla parola e dall’immaginazione fantascientifica di William Gibson si è materializzato attraverso il linguaggio informatico in tutta la sua concretezza, presenza che è andata sempre più crescendo fino ad uscire dai confini dello schermo. Nel 2009 l’artista Miltos Manetas inaugurava il Padiglione Internet alla Biennale di Venezia. Ne celebrava la sua esistenza fisica, ne reclamava il diritto di considerarlo come un vero e proprio territorio.
Lo abbiamo relegato per molto tempo ai margini delle nostre vite, esotico passatempo e asso nella manica nelle conversazioni da salotto. Entravamo e uscivamo dallo schermo. Ad un certo punto, non abbiamo trovato più l’uscita, siamo rimasti imprigionati all’interno di un mondo – immagine, un mondo riflesso nelle mappe di Google Earth, dei servizi online di banche, sanità, e ora della scuola. Uscire non significherebbe rinunciare ad utilizzarne i privilegi; significherebbe, piuttosto, vederlo dal di fuori. E se l’ uscita non fosse più raggiungibile? In quel caso, potremmo cercare di impararne il linguaggio, cercare una sintonia, se non addirittura una simbiosi, proprio come alcuni virus fanno con l’organismo. Sarà forse allora che riusciremmo a staccarci dall’ ombra dell’immagine sferica della Terra vista dalla Luna, e dalla sua temporalità lineare, ed ad entrare nella multi-dimensione ancora tutta da esplorare, da conquistare, da mappare.
Qui nasceranno nuovi Parchi letterari, ombra del vecchio e proiezione del nuovo che verrà. Dovremmo prima impararne il linguaggio e iniziare a scavare nella macerie, quelle fisiche, e quelle sepolte nello tsunami di informazioni, di iniziative e quant’altro si sono riversate in rete facendo ombra su molte cose costruite nell’arco degli anni. In questo brodo primordiale, nuovi paesaggi, ma anche nuove creature prendono forma dalla materia informatica e dell’informazione.
Il tempo aiuterà a riconoscere ciò che è nato da genuina ispirazione, che merita di essere celebrato e fissato nella memoria, magari attraverso materie, linguaggi e supporti diversi da quelli di oggi… non necessariamente umani.
Elena Giulia Rossi
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N.B. Le immagini inserite in questo articolo sono le prime tre immagini inviate da Google in risposta alla parola digitata ‘cyberspazio’ nel ‘search’ del motore di ricerca Chrome.
Nell’ordine di apparizione, le immagini appartengono ai seguenti articoli e fonti online:
1. Sapere.it De Agostini: https://www.sapere.it/sapere/strumenti/domande-risposte/di-tutto-un-po/definizione-cyberspazio.html;
2.Giusy Carretto, Cyberspazio e Big Data: di chi sono i dati che raccolgono le aziende, “Start Magazine”, 17.05.2017,
https://www.startmag.it/innovazione/cyberspazio-big-data-dati-raccolgono-le-aziende/;
3) I-Forensic Team, Etnografia del cyberspazio: cos’è e quali applicazioni può avere, 17.03.2020,
http://www.i-forensics.it/i-forensics-news/290-etnografia-del-cyberspazio-cos-e-e-quali-applicazioni-puo-avere