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Emma Perodi e la Battaglia di Campaldino di Federico Canaccini*

Emma Perodi e la Battaglia di Campaldino di Federico Canaccini*

La battaglia di Campaldino nel Parco Letterario Emma Perodi e le Foreste Casentinesi. Nell’opera della Perodi non poteva mancare un racconto sull’episodio guerresco più famoso svoltosi nella valle del Casentino cui partecipò anche Dante Alighieri...

11 Giugno 2020

La battaglia di Campaldino nel Parco Letterario Emma Perodi e le Foreste Casentinesi

L'11 giugno 1289 venne combattuta la battaglia di Campaldino fra i guelfi, prevalentemente fiorentini, e ghibellini, prevalentemente aretini, alla quale parteciparono, tra gli altri, Dante Alighieri e Cecco Angiolieri. La vittoria dei guelfi, dovuta soprattutto al ruolo di Corso Donati, costituì un evento chiave nel processo di affermazione dell'egemonia di Firenze sulla Toscana. Dante riportò molti episodi della battaglia nella Divina Commedia. Nel V canto del Purgatorio  incontra Bonconte da Montefeltro il quale ricorda la battaglia, la ferita mortale, gli ultimi istanti di vita sulle rive dell'Archiano e il pentimento che gli permise di accedere al Purgatorio, con il diavolo, mandato a prendere la sua anima, che scatenò un furioso temporale, riportato nelle cronache, che fece ingrossare il letto del torrente e disperdere il corpo di Bonconte.  Nelle novelle di Emma Perodi, in un Casentino mitico e goticheggiante, è il fantasma di Aimeric di Narbonne ad aggirarsi ancora inquieto nella piana di Campaldino fra Poppi e Pratovecchio... 

Emma Perodi e la Battaglia di Campaldino
di Federico Canaccini*

Nell’opera di Emma Perodi non poteva certo mancare un racconto incentrato sull’episodio guerresco più famoso svoltosi nei secoli medievali nella valle del Casentino, palcoscenico naturale, sfondo in cui si ambientano le sue novelle. Nel 1289, dopo alcuni anni di confronto militare, due grandi armate, facenti capo a Firenze e ad Arezzo, si fronteggiarono sabato 11 giugno, per san Barnaba, ingaggiando battaglia e insanguinando il pianoro che si stende ai piedi del borgo di Poppi, in località Campaldino, vicino al convento di Certomondo. Non starò a percorrere le vicende che avrebbero portato i due eserciti a scontrarsi, ma mi soffermerò piuttosto su alcuni personaggi che ebbero ruoli fondamentali in quella giornata e che riaffiorano nella novella dal sinistro titolo “L’ombra del sire di Narbona, uno dei racconti più spaventosi e gotici della raccolta della Perodi. 

Dal lato guelfo l’esercito era guidato da due cavalieri francesi, Amerigo di Narbona e il suo bailli, un maestro d’arme più anziano, Guglielmo di Berardo di Durfort, entrambi provenzali. I due erano stati lasciati dal principe di Salerno, futuro re Carlo II d’Angiò quando, nel maggio del 1289, era passato per Firenze, diretto a Rieti per ricevere la corona dal pontefice. I fiorentini avrebbero scortato il drappello del sovrano per ottenere un contingente e la possibilità di fregiarsi del suo vessillo nella imminente campagna contro gli Aretini. La bandiera col seminato di gigli fu affidata ad un cavaliere dei Tornaquinci ma, in realtà, già l’anno prima era stata brandita in occasione di un’altra campagna militare sempre contro Arezzo.

Il Narbonese, ancora giovane, figlio del Visconte Amerigo VI di Narbona, fu fatto cavaliere dal re per l’occasione e, con un drappello di cavalieri d’oltralpe, si diresse a Firenze. Dopo una settimana dal suo arrivo in città, venne dichiarata guerra alla rivale, il 13 maggio, e dieci giorni appresso Amerigo è “al servigio del Comune di Firenze e a’ suoi stipendi con 40 cavalli oltramontani”.

 L’altro condottiero francese presente a Campaldino, è Guglielmo di Berardo, proveniente dal feudo di Durfort, che aveva combattuto con Carlo I d’Angiò in Albania, dove aveva il titolo di Maresciallo e dove aveva governato il Ducato di Durazzo: su di lui e sulla sua perizia faceva affidamento il Narbonese, “giovane e bellissimo del corpo, ma no molto ‘sperto in fatti d’arme”, dice il Compagni che lo conobbe. L’esercito guelfo lasciò Firenze il 2 giugno, ma il Durfort si fermò appena fuori la città, presso la Chiesa dei Serviti, la Santissima Annunziata, dove, il 4 giugno, fece testamento. Prima di partire alla volta di Campaldino, Guglielmo lascia ai Serviti, fra le altre cose, duecento fiorini d’oro, cinque anelli d’oro, molti panni e una borsa di seta, alcuni fiorini d’oro per i poveri, e altri per pover donne zitelle. Poi, in vista di una sua eventuale dipartita in battaglia, lasciò un donativo per i canonici fiorentini, da spendere in messe cantate per la sua anima.

La battaglia iniziò con la carica dei Ghibellini, in inferiorità numerica, che caricarono a fondo, tentando di sfondare lo schieramento nemico. Al centro della schiera guelfa dovevano trovarsi i due comandanti francesi che si trovarono subito coinvolti nella mischia, in mezzo ad un enorme polverone. Nella zuffa “assai pregio v’ebbe il balio del Capitano (cioè Guglielmo di Durfort) e fuvvi morto”, scrive Dino Compagni che era presente. E altrettanto dice Giovanni Villani che segnala che morì “messere Guglielmo Berardi balio di messere Amerigo di Nerbona”. Dopo il primo assalto ghibellino, l’esercito guelfo mise in moto la sua macchina distruttrice: “coll’ale ordinate da ciascuna parte de’pedoni, rinchiusono tra loro i nemici, combattendo aspramente buona pezza”. Le riserve guelfe, capitanate da Corso Donati, caricarono sul fianco; quelle ghibelline, guidate dal conte di Poppi, presero la via della fuga, vista la mala parata. Nella terribile morsa morirono tutti i comandanti, fra cui il vescovo aretino, Guglielmino, suo nipote, Guglielmo Pazzo, e il comandante Buonconte da Montefeltro. A fine giornata un temporale, testimoniato da Dante Alighieri -che vi combatté- nel V canto del Purgatorio, chiuse l’evento bellico: nella piana di Campaldino erano morti circa duemila uomini. 

La pianura, coperta di cadaveri e poi di nere leggende su spettri, fu a lungo evitata. Solo nel dopoguerra vi furono (ahimè) edificati alcuni casermoni ad imbruttire un luogo che, nella sua parziale integrità, è comunque testimone di un capitolo di storia. Doveva apparire ancora spoglia, nera di notte, e popolata di superstizioni e fantasmi, quando la vide (ammesso che abbia soggiornato in Casentino) Emma Perodi, nella seconda metà dell’Ottocento. Il Casentino è una valle angusta, le cui tradizioni, modi di dire, vicende, persino i soprannomi, si tramandano di generazione in generazione: e la vicenda di Campaldino era patrimonio culturale diffuso nelle classi elementari, nell’avviamento, dove grazie ai versi dell’Alighieri se ne manteneva viva la memoria. L’Archianorubesto”, dove avrebbe trovato la morte il condottiero da Montefeltro o la Fonte Branda del falsario da Romena, erano ancora lì, manuale scolastico vivente. Oggi, a quel che percepisco, tutto questo si è molto attenuato.

La trama della novella incriminata è un classico del “morto insepolto” che reclama una degna sepoltura: quanto abbia influenzato l’opera del Foscolo nella stesura della Perodi, questo non ci è dato sapere, ma sarebbe invece interessante spunto di riflessione. La vicenda ruota attorno al conte Guido Selvatico che, per vincere una scommessa, attraversa al buio la spettrale pianura. Nel farlo si imbatte in migliaia di spettri e nel fantasma di Amerigo di Narbona che chiede degna sepoltura giacché le sue ossa sono esposte alle intemperie. Con l’aiuto della moglie Manentessa, tra mille incubi e peripezie, finalmente il sire di Narbona potrà riposare in pace, grazie a un escamotage vecchio quanto Plauto (un bracciale come riconoscimento), liberando il conte dall’ossessione e incutendo più di un filo di paura nei giovani lettori della novella.

La realtà storica viene qui manipolata: non fu Amerigo a morire in battaglia, bensì il Durfort. Perché tale trasformazione storica? La scelta, forse, più che dettata da una volontà letteraria, potrebbe essere stata fatta su una interpretazione approssimativa di alcune fonti e sulla base del successo avuto a Firenze dalla memoria di Amerigo. Certo è che la morte in battaglia del Narbona, comandante dei Guelfi, rende tutta la vicenda più ricca di pathos. Ma perché allora non scrivere della morte del comandante Guglielmo Berardi di Durfort, altrettanto esotico, e veritiero? 

 La tradizione tramandava che, se da un lato gli Aretini avevano perduto tutti i loro comandanti, Vescovo in testa, i Guelfi avevano perduto il loro comandante di origini francesi. Di nome, questi era appunto Amerigo di Narbona, ma di fatto l’esercito era affidato alla perizia militare del Durfort, sepolto alla Santissima Annunziata e di cui, ancor oggi, si può ammirare la lastra tombale che lo ritrae al galoppo in atteggiamento bellico, così come dovette presentarsi in battaglia.

Dopo la vittoria di Campaldino, i fiorentini fecero dei funerali solenni al guerriero francese morto per la loro città, e i Servi di Maria vennero da Lucca, da Pistoia, da Siena per pregare sulla sua tomba. Ma la gloria di un morto, forse, poco poté contro quella dell’eroe vivente, il Narbona: al suo rientro in Firenze gli fu posto sul capo un drappo ricamato in oro zecchino, fu portato in trionfo dai cavalieri guelfi e fu nominato Capitano della Taglia guelfa. Il suo nome, Amerigo, sino ad allora poco o per nulla diffuso in Firenze, divenne il nome di battesimo di molti neonati dal 1289 in poi. E, come da buona tradizione, trasmesso ai nipoti. Uno di questi fiorentini è Amerigo Vespucci, al cui nome è legato quello del continente americano. Contro una simile fama, forse anche la Perodi preferì cedere e, consapevolmente o inconsapevolmente, nominare il protagonista spettrale della sua novella “l’ombra del sire di Narbona” anziché “l’ombra del sire di Durfort”. 

Federico Canaccini, maggio 2020

*Federico Canaccini. Storico del Medioevo, interessato in particolare alle lotte politiche tra le fazioni in Toscana, a cavallo tra XIII e XIV secolo. Ha pubblicato diversi libri ed articoli sul conflitto tra Guelfi e Ghibellini, analizzando aspetti diversi del fenomeno, tra cui la Battaglia di Tagliacozzo, i simboli delle fazioni, l'evoluzione semantica dei nomi, la missione diplomatica fiorentina del Maestro Generale francescano Matteo d'Acquasparta. Si occupa inoltre di Paleografia Latina - materia che ha insegnato in diverse università - e di edizioni critiche: ha pubblicato la inedita Questio de duratione mundi, dell'Astrologo G.Paolo da Fondi, autore letto e conosciuto da Giovanni da Capestrano. Ha poi pubblicato un inedito esemplare della Bolla giubilare Antiquorum habet, in volgare toscano. Ha avuto incarichi negli Stati Uniti, insegnando alla Catholic University di Washington DC e svolgendo ricerche presso la Princeton University (NJ). Attualmente è occupato nella trascrizione e edizione critica dei Quodlibeta di Giovanni Regina di Napoli OP, in collaborazione presso la Università Pontificia Salesiana, dove insegna Filosofia Medievale. Da anni collabora con la rivista Medioevo ed è attivo recensore presso Studi Medievali.

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In foto:
Piana di Campaldino e Castello di Poppi. Picasa, Archivio Alinari
Leonida Edel, illustrazioni per Le novelle della nonna, di Emma Perodi , edizione fuori commercio per Banca Etruria
Colonna di Dante, Campaldino
Vista dal Castello di Poppi, Stani de Marsanich

Leggi la novella "L'ombra del Sire di Narbona, Emma Perodi, Le novelle della Nonna

ll Parco Letterario Emma Perodi e le foreste casentinesi. In un equilibrato connubio tra paesaggio, patrimonio culturale e attività tradizionali il Parco Letterario è ambientato negli storici Comuni di francescana e dantesca memoria di Bibbiena, Poppi, Pratovecchio Stia, Chiusi della Verna, Ortignano Raggiolo, Castel Niccolò, riuniti sotto l’egida del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.

Vedi la cartografia del Parco Letterario Emma Perodi





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