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 ... sor’acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta

... sor’acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta

A Chitignano, il 22 Marzo scorso, nel ruolo di una “misera vedova” ho avuto l’opportunità di cimentarmi "Tra acque magiche e miracolose" in una recita ispirata a una novella di Emma Perodi, “Il Romito dell’Alpe di Catenaia”.

18 Aprile 2024

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta”. San Francesco, Cantico delle Creature, 1224 

A Chitignano, il 22 Marzo scorso, nel ruolo di una “misera vedova” ho avuto l’opportunità di cimentarmi in una recita ispirata a una novella di Emma Perodi, “Il Romito dell’Alpe di Catenaia”. Il luogo e la data non sono casuali. 

Il contesto celebrativo della Giornata mondiale dell’Acqua 2024 (Tra acque magiche e miracolose nel territorio di Chitignano, ndr) ha richiamato infatti la nostra attenzione sul prezioso elemento che consente, unitamente all’aria, la vita delle creature sul nostro pianeta e sul particolare potere curativo posseduto da alcune acque. E’ il caso delle sorgenti termali che scaturiscono nei pressi del paesino di Chitignano, dove le proprietà delle acque sulfureo-ferruginose, conosciute già dagli Etruschi, apprezzate dai pellegrini medioevali in transito sulla Via Romea e, in tempi più recenti, valorizzate dai Conti Ubertini, hanno mantenuto intatta la propria “magia”. 

Presso la “Buca del Tesoro”, una delle tre sorgenti, è andata appunto in scena la novella, grazie a un’idea della Prof.ssa Alberta Piroci Branciaroli (Direttrice dell’UNIEL di Bibbiena, sez. dist. di Arezzo e Direttore scentifico del Parco Letterario Emma Perodi e le Foreste casentinesi) prontamente raccolta dalla Prof.ssa Piera Biondi Giannini (regista, sceneggiatrice e, per l’occasione, narratrice) e dall’ Amministrazione comunale chitignanese. 

Da “improvvisati” attori amatoriali UNIEL, abbiamo quindi coinvolto il pubblico intervenuto mostrando come anche la scrittrice toscana fosse a conoscenza delle virtù portentose di quelle acque e avesse voluto, a proprio modo, suggerirne le origini miracolose.

Il “Romito” riuscirà infatti a guarire il figlio agonizzante di una povera vedova grazie proprio a quell’acqua che, in un sogno premonitore, un Angelo aveva fatto scaturire nel luogo dove il vecchio eremita si sarebbe recato poi ad attingerla realmente il mattino successivo.

Come spesso accade, anche questa novella perodiana consente una lettura “stratificata”: oltre al racconto centrato sulla figura dell’eremita caritatevole e al conseguente intento educativo costituito dai contenuti narrati, esiste un secondo livello di lettura, più profondo, sollecitato dall’accostamento tra le proprietà curative dell’acqua e la figura del “Romito” il quale, in virtù della propria dolorosamente conquistata “santità”, diventa il tramite del miracolo della guarigione.

Lo storico Peter Brown (1) sostiene infatti che, già dalla tarda antichità, il prestigio del “monaco” consisteva nel suo essere “il solitario” il quale, nella propria persona, riassumeva l’antico ideale della semplicità di cuore; a questa era giunto rinunciando al mondo (pensiamo ai primi anacoreti, conosciuti come “uomini dell’erèmos”, cioè del “deserto”) e, quindi, sottraendosi alla corruttrice vita organizzata della società.

Con questa “rinuncia” l’eremita otteneva la libertà di conquistarsi, davanti a Dio e ai propri simili, l’ideale, appunto, della semplicità di cuore: immune dalle tensioni della società costituita e purificato dolorosamente dalle tentazioni che i demoni gli suggerivano, anelava a possedere il “cuore del giusto”.

Così il “solitario” riconquistava, al di fuori della società civile, un tratto della primitiva maestà dell’Uomo, quasi un Adamo delle origini, “specchio in terra della vita degli Angeli”, anzi, un “uomo angelico”.

Nella novella perodiana, in effetti, accanto al tema della dolorosa e tenace volontà di espiazione da parte del Romito ( in una prospettiva ermeneutica che si risolverà solo alla fine mantenendo così alta la tensione della lettura fino alla confessione pubblica del peccato), si rivelerà determinante la presenza angelica “indiretta”: sarà proprio l’Angelo apparso in sogno che permetterà di individuare poi, nella realtà, la sorgente dalla quale attingere l’acqua miracolosa.

Non mancano poi, a proposito del ruolo dell’Angelo, i riferimenti alle numerose arti divinatorie, praticate fin dall’antichità dal Medio Oriente fino alla Cina, che prevedevano l’uso di bacchette o bastoni da cui si traevano auspici: il bastone che verrà battuto tre volte nel punto stesso in cui scaturirà la sorgente sembra richiamare il “RHABDOS” (bacchetta) attraverso il quale, per secoli, si è creduto che i rabdomanti percepissero le vibrazioni dovute alla presenza dell’acqua.

Di questa “sacralità” partecipa a pieno titolo il nostro Romito, divenendo il tramite del miracolo salvifico. Egli ha sì operato una scelta di solitudine rimanendo tuttavia ai margini del mondo civile e, come sostiene sempre Peter Brown a proposito di molti eremiti, risultando così comunque facilmente raggiungibile dalla comunità che ha abbandonato, assumendone ben presto la funzione di guida spirituale.

Anche Giovanni Crisostomo, intorno al 382 d.C., nei “Sermoni” aveva sostenuto che la società e la natura umana che le si è adattata, non sono da considerare altro che un “accidente” imprevisto e transitorio della Storia: quindi coloro, uomini e donne, che avevano adottato la vita ai margini delle comunità avevano semplicemente anticipato l’alba della vera natura dell’uomo, poiché tutte le strutture umane societarie (“arti e costruzioni”, “società e famiglie”) si sarebbero presto “assopite” nell’immensa calma della presenza di Dio. Le stesse comunità, quindi, avrebbero percepito nei Romiti la vicinanza a Dio e si sarebbero loro affidate fiduciose. La scrittrice ci mostra, in linea con quanto sopra, il “nostro” Romito costantemente intento ad alleviare le pene dell’esistenza della povera gente non solo curandone i corpi con la raccolta e la donazione dei “semplici” (piante medicinali) ma, soprattutto, consolando le anime dalle sventure e aprendole alla speranza. Egli stesso rivela, a chi lo ringrazia, che è lui a essere grato per aver ritrovato finalmente la calma “dopo tante sventure!” 

Con quello poi che nell’analisi del racconto verrebbe definito un vero e proprio “colpo di scena”, il nostro “cavaliere asceta” si rivela, alla fine, un fratricida pentito, in cerca di espiazione e perdono. Anche in questo caso il livello più profondo di lettura permette la riflessione su un aspetto importante del cosiddetto “privato medioevale”: il nostro sconosciuto cavaliere commette un grave peccato cercando di sfuggire al “soffocamento della vita domestica” resa “gregaria” dalla presenza di un fratello maggiore. Non sopportando l’inferiorità e la marginalità familiare refrattaria a considerare i meriti e le virtù del singolo decide quindi di ucciderlo, trascorrendo poi tutta la vita in solitudine e dolore anelando il perdono di Dio.

A questo proposito lo storico George Duby (2) sostiene che nell’ultimo terzo del sec. XII, nei racconti destinati allo “svago cavalleresco”, l’eremita ha un posto di primo piano perché, nell’ immaginario, la foresta rappresentava il luogo delle prove avventurose. Il romanzo compensava quindi oniricamente, secondo Duby, le frustrazioni del “privato feudale”, in particolare quelle patite dai giovani cadetti. Frustrazioni determinate dalle costrizioni della morale religiosa: ed ecco l’eremita, solo, senza controlli, portatore di un Cristianesimo pieno d’indulgenza e sottratto all’imposizione dei riti. Frustrazioni determinate dalle costrizioni della morale domestica: ecco il cavaliere errante, solitario, guidato dal proprio personale desiderio e “senza padroni”.

Abbiamo visto inoltre che, come sostiene anche Callisto Ware (3), metropolita ortodosso, “solitudine” non implica necessariamente lontananza e disinteresse, perché il solitario è “separato da tutti e unito a tutti”; è, in grado supremo, uno che cerca, con la grazia di Dio, di acquisire la pace interiore: ed è in questo modo che assiste gli altri.

Quindi, anche se la figura del “romito” perodiano risente certamente, in parte, del pregiudizio rilevato dallo studioso André Vauchez (4) secondo il quale nel Medioevo (e non solo) la simbiosi tra le classi dirigenti ecclesiastiche e quelle laiche aveva creato la figura del SANTO NOBILE ( nella convinzione che “la perfezione morale e spirituale poteva difficilmente svilupparsi al di fuori di un illustre lignaggio”) , nello stesso tempo l’amorevole dedizione al benessere degli altri in assoluta indifferenza verso il proprio riconcilia il nostro eremita con il concetto di uguaglianza tra gli uomini e, soprattutto, con quello di “fratellanza” universale in quanto figli di Dio.

La stessa volontà di confessare pubblicamente il peccato gravissimo, a cui lo avevano spinto l’invidia e il giovanile rifiuto della “gregarietà” imposta ai cadetti dalle regole familiari medioevali, rappresenta un ultimo “dono di sé” che il romito offre, con le parole scelte per lui da Emma Perodi, affinché sia “d’esempio a non cedere alle passioni, e a non dare ascolto ai cattivi suggerimenti” (di nuovo i ”sussurri diabolici” che torturavano i primi anacoreti nel deserto). Il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, la sofferenza, la penitenza, l’annullarsi nella dedizione agli altri e il pentimento sincero possono quindi aprire le porte al benessere di un’intera comunità: ecco di nuovo l’intento educativo, talvolta non pienamente riconosciuto alle novelle della nostra scrittrice!

Anche l’apoteosi dell’anima del “Santo” che rappresenta, unitamente alla pioggia di fiori e allo sgorgare di tante fonti di acqua curativa , la remissione del peccato e il perdono divino , ci instilla, ancora una volta, un dubbio: è solo una coincidenza che, come centro vitale della dedizione salvifica del “Santo Romito”, sia stata scelta “…sor’acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta” , quell’acqua che, sgorgata miracolosamente alle pendici del Monte che ospita il Santuario della Verna, salverà quel giovane chiamato proprio “Francesco”?

 Luciana Casini

  1. P. Brown, “Tarda Antichità” (in “La vita privata dall’Imp. Romano all’anno Mille”, Laterza, 1988)
  2. G. Duby, “Situazione della solitudine”. Secc. XI-XIII” (in “La vita privata dal Feudalesimo al Rinascimento”, Laterza, 1988) 
  3. C. Ware, “Il mondo salvato dagli eremiti”, “Avvenire”, Settembre 2010
  4. A. Vauchez, “Il Santo” (in “L’uomo medievale”, a cura di Jacques Le Goff, Laterza, 1989)

Immagine di copertina Casentinopiù.it

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