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La vita


Primus ego in patriam mecum, modo uita supersit,
Aonio rediens deducam uertice Musas;
primus Idumaeas referam tibi, Mantua, palmas,
et uiridi in campo templum de marmore ponam
propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat
Mincius et tenera praetexit harundine ripas.

Virgilio, Georgiche III 10-15
Io come primo mantovano, ammesso che la vita sia bastevole, tornando in patria dalla vetta aònia, porterò con me le Muse; io per primo, o Mantova, ti porterò le palme idumèe ed innalzerò un tempio marmoreo nella verde campagna in vicinanza dell'acqua, dove l'ampio Mincio sinuoso scorre lento e copre di tenere canne le sponde

Publio Virgilio Marone nacque nei pressi di Mantova, ad Andes, verosimilmente l'odierna Pietole oggi frazione del Comune di Borgo Virgilio, nel 70 a. C.  e morì a Brindisi  nel 19 a. C.. 
Era di una famiglia di agricoltori, probabilmente agiati; fu avviato agli studî prima a Cremona, poi a Milano, centro culturale della Gallia Cisalpina. Fra il 55 e il 50 visse a Roma, verosimilmente per studiare eloquenza alla scuola di Elpidio, ma il suo poco interesse e la criticità dell'epoca (guerra civile tra Cesare e Pompeo, e conseguente dittatura di Cesare) lo trattennero dall'intraprendere il corso degli onori.
Già allora prese a esercitarsi nella poesia e ben presto, attratto dal fascino di Lucrezio, si dedicò alla meditazione filosofica.
Virgilio aderì così all'epicureismo e nel 45 si recò a Napoli dove fiorivano le scuole di Sirone e di Filodemo, pochi mesi prima dell'assassinio di Cesare.  
Tornato nei poderi mantovani, vi ritrovava concretato l'ideale dell'hortus epicureo, l'angolo appartato dalle tempeste della vita, ove poter meditare con serena tranquillità.
La campagna fu per lui la massima fonte di ispirazione poetica; sensibilissimo alle bellezze e ai significati spirituali del paesaggio e della quiete dei campi, scrisse le Bucoliche, l'opera dalla quale venne improvvisamente innalzato alla fama.
Nel frattempo, dopo la battaglia di Filippi, i triunviri ordinarono confische di terre a favore dei loro veterani, e Mantova, vicina a Cremona, punita per aver parteggiato per gli sconfitti, subì la sorte di questa città: così Virgilio perdette a beneficio dei veterani il podere avito.
Soltanto grazie all'intervento di Ottaviano, al quale era ormai vicino tramite le potenti amiciziedi Alfeno Varo, Cornelio Gallo e Asinio Pollione, poté tornare in possesso della sua terra; sennonché, alcuni anni dopo, Alfeno Varo, incaricato di una nuova spartizione delle terre ai veterani, non seppe o non volle aiutarlo col suo intervento presso il principe, e Virgilio perse definitivamente il podere.
L'amara esperienza si tradusse nella poesia; non solo nelle Bucoliche, la cui composizione si estese lungo questi anni, ma anche nelle Georgiche e, in generale, in tutta la sua opera.

Lontano da Andes, nei nuovi soggiorni romani e napoletani nacquero le Georgiche, fra il 37 e il 30, compiute proprio mentre Ottaviano conquistava l'Egitto e sistemava l'Oriente. Ed è in questa atmosfera di trionfo che fu concepita l'Eneide, cui il poeta attese tra il 29 e l'anno della morte, con un decennio di lavoro nutrito di grandi studî filosofici, storici, antiquarî, letterarî, nei quali maturò definitivamente la sua concezione dell'esistenza, della storia umana, della romanità. Al suo maggior poema però non poté dare l'ultima mano. Nel 19 partì per la Grecia e l'Oriente, dove intendeva raccogliere notizie che gli servissero per un'ultima generale rielaborazione dell'Eneide; ma, ammalatosi durante il viaggio di ritorno, giunto a Brindisi morì.
Aveva dato disposizioni perché il poema non perfetto fosse dato alle fiamme, ma la volontà di Augusto prevalse e l'Eneide venne pubblicata a cura di Vario e Tucca, fedeli amici del poeta.
Virgilio fu sepolto a Napoli, sulla via di Pozzuoli, nei luoghi che in vita aveva avuto più cari. 

Nelle Bucoliche sono trasfigurati in linguaggio poetico i precetti di vita proprî della filosofia epicurea ("vivi appartato", "vivi in segreto"), che spinsero il poeta a evadere dalla realtà dolorosa della vita sociale in un mondo individualistico, privo di bisogni e ambizioni, quale appunto quello dei suoi pastori.
La vena poetica "bucolica" (non per i suoi esteriori riferimenti alla vita dei pastori, ma per il suo vero significato poetico di senso del paesaggio naturale, in cui vive immerso l'uomo) sarà sempre una costante della poesia virgiliana. 

huc ades, o Meliboee; caper tibi salvos et haedi, et, si quid cessare potes, requiesce sub umbra. Huc ipsi potum venient per prata iuvenci; hic viride tenera praetexit harundine ripas Mincius, eque sacra resonat examina quercu
Virgilio, Bucoliche, VII, 13-14
Vieni qui, Melibeo: il tuo capro e i capretti sono salvi e, se puoi fermarti, riposa all'ombra. Qui, attraverso i prati, verranno ad abbeverarsi i giovenchi; qui il Mincio ha ricoperto di verde e tenera canna le rive,e dalla sacra quercia ronzano le api

Ancora dalla campagna, ma ora sentita non più tanto come paesaggio e stato d'animo, quanto come la Madre Terra, fecondata dalle fatiche umane, nacquero le Georgiche. L'intendimento esteriore era didascalico; le Georgiche sono un poema complesso e organico, che esalta e descrive ogni aspetto dell'agricoltura e dell'amore per la terra, la coltivazione dei campi, la cultura degli alberi e particolarmente della vite, l'allevamento del bestiame, la cultura delle api.
Sappiamo dal poeta stesso che l'opera gli fu suggerita da Mecenate, nel clima dell'illuminata restaurazione augustea dei tradizionali valori italici. 
In gioventù Virgilio aveva nutrito grande ammirazione per la concezione scientifica della natura di Lucrezio; ma ora, senza dimenticare l'esperienza lucreziana, fu indotto a cantare la realtà naturale dal punto di vista delle umili cose della vita e del lavoro umano cantando gli idoli dell'immaginazione e della credenza popolare.
L'epicureismo è superato in una nuova e più complessa sensibilità che nasce dalla comprensione per l'uomo, le sue passioni, e i suoi doveri: è una sensibilità più umile nel rispetto delle tradizioni che sostengono le fatiche dei campi, e insieme più superba, perché quelle fatiche assumono il carattere di un epos, l'oscuro epos del tenace contadino. L'idea culminante è quella della pace operosa, realizzata fra gli uomini, consacrata dall'osservanza delle consuetudini, delle leggi, delle istituzioni civili. Il mondo irreale e musicale delle Bucoliche si allontana per cedere il posto a un più immediato senso delle cose, a una severa poesia dell'etica umana.

La concezione virgiliana della vita è ormai nelle Georgiche dominata dal senso del dolore; mali di ogni sorta, difficoltà, sventure incombono sugli infelici mortali; nulla si ottiene dalla terra senza sudore e senza fatica, le forze misteriose della natura minacciano d'ora in ora la vita e le opere, piombano su animali, seminati, piante, raccolti e sovvertono tutto, costringendo l'uomo a riprendere ogni volta pazientemente l'opera sconvolta. Ma il poeta ha scoperto il senso provvidenziale della sofferenza e del dolore inteso come redenzione morale, come condizione indispensabile per creare qualcosa di grande; il dolore come mezzo per dare valore e dignità alla vita. Il lavoro vincendo le avversità incentiva l'agricoltura, fondamento primo della grandezza di Roma.

Viene così affrontato dal poeta il grande tema della eroica fatica umana, sentita non solo nel suo presente quotidiano, ma nel suo significato profondo di opera dei secoli e nei secoli, come storia. Nelle Georgiche è maturata la complessa sensibilità poetica e morale virgiliana, che è insieme moralistica e storica, che sente la idealità delle vicende umane nella loro dimensione eterna e anche nel loro essere realizzate nel tempo: la pace e la forza del mondo romano augusteo vivono oggi del silenzioso eroismo dei contadini, delle loro umili fatiche compiute con virile rassegnazione; e questo eroismo ricorda il mitico eroismo dei guerrieri troiani che in cerca di una terra da coltivare e di una città da fondare giunsero ai lidi di Lavinio e ai colli, ancora selvosi, della futura Roma.

Ille etiam patriis agmen ciet Ocnus ab oris,
fatidicae Mantus et Tusci filius amnis,
qui muros matrisque dedit tibi, Mantua, nomen,
Mantua diues auis, sed non genus omnibus unum:
gens illi triplex, populi sub gente quaterni,
ipsa caput populis, Tusco de sanguine uires
hinc quoque quingentos in se Mezentius armat,
quos patre Benaco uelatus harundine glauca
Mincius infesta ducebat in aequora pinu.

Virgilio, Eneide X, 198-206

Anche lui, Ocno, chiama una truppa dalle patrie terre, figlio della fatidica Manto e del fiume Tosco, che diede a te, Mantova, le mura ed il nome della madre, Mantova ricca di avi, ma non per tutti un'unica stirpe: lei ( ha ) un triplice gente, quattro popoli per gente, lei stessa capitale per i popoli, le forze da sangue tirreno. Di qui pure Mezenzio ne arma cinquecento contro di sé, che il Mincio velato di canna verdazzurra guidava su pino nemico, dal padre Benaco verso il mare.

Con l'Eneide, Virgilio si riavvicinava alla poesia arcaica romana, gettando un ponte di là dalle esperienze neoteriche e lucreziane; ma nella sua opera le vicende presenti e le passate, la storia e la leggenda, la realtà e l'ideologia si fusero con procedimento poetico ben altrimenti complesso di quello dei suoi predecessori. Tutti gli elementi storici, come le gesta di Ottaviano e le glorie e aspirazioni del nuovo impero, non sono esposti direttamente come materia di narrazione, ma per via indiretta, sotto forma di digressioni fantastiche e favolose, a rappresentare lo spirito animatore dell'unico argomento, le gesta di Enea.

Ed è notevole come egli abbia fuso il suo fondamentale atteggiamento spirituale, antieroico ed elegiaco, con la necessità di cantare in forma epica le glorie di Roma: il risultato è la creazione di un nuovo valore dell'epos. Davanti alle imprese di guerra e di conquista Virgilio non si esalta, quanto si duole per i patimenti e gli strazî da quelle provocati. L'eroe del poema, Enea, aborre dalla guerra e dalle azioni violente e crudeli, ma vi si presta per sentimento religioso di obbedienza ai voleri del Fato.
Enea è il simbolo del cammino necessario dell'umanità, originato dall'imperscrutabile volontà del Destino, riscattato dall'adesione piena, per quanto dolente, della volontà morale dell'individuo destinato.
Enea e Turno e i loro compagni e alleati risultano così creature vive e drammatiche, le cui gesta hanno per sfondo un antico vergine Lazio, immerso in una natura lontana nel tempo, una natura "antica". Donde la sublime poesia delle selve chinate a far ombra sul Tevere, stupefatte al nuovo spettacolo delle navi d'Enea remeggianti verso gli abituri dell'arcade Evandro, che abita i selvaggi boschi del Palatino; o dell'arcana luce lunare che tra il fogliame dell'antica foresta laziale percuote scintillando le armi di Eurialo e Niso, destinati a morire.

L'immensa epopea culminante nella gloria di Cesare e di Augusto si svela agli occhi dell'errante Enea, dal fondo della terra, come una storia futura di morti.
E tornerà con la mente all'altro grande libro dell'Eneide, il 2°, il libro dell'incendio di Ilio: quando un'altra tormentata ombra, Ettore, chiama il dormiente Enea al suo destino di portare i Penati alla lontana spiaggia di Lavinio, culla voluta dal Fato per la gente romana.

Così come nel processo di cristianizzazione dell'opera virgiliana influì poi singolarmente la quarta Bucolica, che, con le sue solenni promesse di un'età pacificatrice e redentrice, fu scambiata per un sicuro presagio dell'avvento di Cristo, anche in Dante vi sono residui della valutazione allegorica e anagogica di Virgilio e nell'episodio di Stazio (Purgatorio) ne è celebrato il valore anticipatore, se non profetico, rispetto al messaggio cristiano.
D'altra parte, la stessa personalità storica di Virgilio aveva ormai assunto valori mistici e magici, sì che nel Medioevo è poeta e profeta, saggio e mago, vate e taumaturgo; immagine nata nella cultura monastica ma penetrata poi nel popolo, sì da farsi vera e propria leggenda.
Questo idealizzazione del Poeta di Andes entrò nella letteratura romanzesca ed enciclopedica e nello stesso clima culturale il Roman d'Eneas (sec. 11°) travestirà in forme cavalleresche e cortesi l'originale.
Si comprende pertanto come la personalità e la poesia di Virgilio, arricchite di significati e interpretazioni nella cultura medievale, potesse costituire per Dante la più luminosa guida nel regno dell'arte e del sapere. Virgilio fu per Dante il maestro di stile, modello insuperato di eccellenza formale; ma anche fu il simbolo dell'umana ragione, colui che con le sole forze dell'intelletto aveva raggiunto il più alto vertice dell'umana perfezione. Dante ritrova le sue fonti ideali nell'Eneide, ed è grazie alla lettura consapevole di Virgilio che riesce a dar forma alla sua problematica concezione laica dello stato e dell'impero. L'interpretazione dantesca rimane esempio eccezionale di assimilazione feconda e di simpatia spirituale e culturale al di sopra dei secoli.
Tratto da Treccani.it
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