“Che, se n’annamo a Ostia? Fece il Riccetto, “oggi sto ingranato”.
“Eh” fece spostando su e giù tutti gli ossacci della sua faccia Alvaro.
“C’avrai dupiotte, c’avrai...”
Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di Vita
Pier Paolo Pasolini: nato a Bologna, il 5 marzo 1922; da Carlo Pasolini, tenente di fanteria, di vecchia famiglia ravennate, di cui aveva dissipato il patrimonio; e da Susanna Colussi, insegnante, di Carsara della Delizia nel Friuli. La carriera militare di Carlo Pasolini obbliga la famiglia a frequenti spostamenti: da Bologna a Parma, da Conegliano a Belluno dove, nel 1925, nasce il fratello Guido Alberto. “In quel periodo,” scrisse Pasolini in Empirismo Eretico, “andavo ancora d’accordo con mio padre. Ero eccezionalmente capriccioso, cioè nevrotico, presumibilmente, ma buono. Verso mia madre, (incinta, ma non lo ricordo) ero nello stato d’animo di tutta la mia vita, un disperato amore.” Ma è certo fin dagli anni infantili che padre e madre acquistano opposte e decisive influenze su di lui, e il padre torreggia temuto e tirannico. “Passionale, sensuale, violento di carattere,” scrisse di lui il figlio, “ed era finito in Libia, senza un soldo; così aveva cominciato la carriera militare, da cui sarebbe stato deformato e represso fino al conformismo più definitivo. Aveva puntato tutto su di me, sulla mia carriera letteraria, fin da quando ero piccolo dato che ho scritto le prime poesie a sette anni: aveva intuito, pover’uomo, ma non aveva previsto, con le soddisfazioni, le umiliazioni.” La vera figura dominante è la mitissima madre, costante oggetto d’amore, e alla quale dedicherà nella maturità alcuni dei suoi versi più sconvolgenti. Non è difficile riconoscere, anche da questi scarni dati, le linee di un grande conflitto edipico, di cui Pasolini ebbe una rara quanto estrema consapevolezza.
A Bologna
Le poesie infantili furono scritte a Sacile, dove Pasolini frequentò le elementari. Vi furono altri trasferimenti: a Cremona, Reggio Emilia, dove frequentò il ginnasio e infine a Bologna, dove studiò al liceo Galvani, e poi all’Università (“Un’Università mediocre e fascista,” commentò più tardi. “Devo eccettuare la figura di Longhi che è stata in quegli anni a Bologna di grande importanza per me e per molti miei coetanei o più anziani di me.”) Nel 1942, mentre il padre è prigioniero in Kenya, la famiglia si rifugia a Carsara.
In quell’anno, a sue spese, il giovane Pasolini pubblica le Poesie a Carsara, in dialetto friulano: non sfuggirono all’attenzione di Gianfranco Contini, che le recensì sul Corriere di Lugano. L’anno seguente è soldato a Livorno: fugge dopo l’8 settembre, e torna a Carsara.
La morte del fratello
Nel 1945, la morte del fratello, appena diciannovenne: Guido, che militava in un gruppo partigiano facente capo alla brigata “Osoppo” venne, come i suoi compagni, ucciso dai partigiani jugoslavi, in quella che è una delle pagine più nere della Resistenza. Rese più atroce la sua fine il fatto che fosse sfuggito in un primo tempo alla strage; e che, già ferito, venisse braccato, trovato e infine ucciso. Nelle opere di Pasolini si trovano più volte dolore, memoria, trauma e lutto per questa morte: apertamente commemorata in alcuni versi, rievocata in cifra, almeno nel suo nudo significato, nei due romanzi “romani”. Il “morto giovanetto” è uno dei temi maggiori e più dolenti sia in Ragazzi di Vita che in Una vita violenta.
Casarsa
Alla fine della guerra: il ritorno del padre a Casarsa, con un irremediabile acuirsi di incomprensioni e dissensi; la laurea in lettere a Bologna, con una tesi sul Pascoli; l’insegnamento, tra il ’45 ed il ’49, nelle scuole medie di un paese vicino a Casarsa, Valvasone. Il 18 febbraio 1945 è la data della fondazione, da parte di Pasolini e di giovani universitari friulani, dell’Academiuta de lenga furlana, un centro di studi filologici sulla lingua e la cultura friulane: nei cui quadernetti, intitolati Stroligut de ca’ da l’aga (Lo stregone di qua dall’acqua) sono racconti, saggi e poesie, molti dei quali in dialetto, di Pasolini e di altri membri dell’Academiuta. E’ nota l’importanza avuta dal periodi friulano nella formazione intellettuale e nelle scelte etiche di Pasolini. Questi anni giovanili, vissuti in un mondo contadino amato, e studiato con vero amore, li sentì più tardi mitici (come la propria giovinezza), arcaici, religiosi, innocenti; sua hantise e suo modello da superare, da ritrovare, da portare, forse, a compimento, da non tradire e, soprattutto, da comunicare ad altri, perché nessuno ignori o dimentichi quell’antica freschezza. Dal fondo di quei giorni trovò, fin da principio, Mani, Lari e Penati suoi e di quell’Italia che indicherà, dantescamente, “umile”, e autentica, e di cui, negli ultimi scritti, annuncerà la quasi totale scomparsa con accenti che desteranno ribellione e scandalo. Strettamente legata al suo sentire il mondo contadino è l’osservazione del mondo del sottoproletariato delle borgate romane. In un’intervista a “La Stampa”, (1° gennaio 1975) disse appunto delle borgate: “ Era un mondo degradato e atroce, ma conservava un suo codice di vita e di lingua al quale nulla si è sostituito. Oggi i ragazzi delle borgate vanno in moto e guardano la televisione, ma non sanno più parlare, sogghignano appena. E’ il problema di tutto il mondo contadino, almeno nel Centro-Sud.” Nelle sue linee maestre, l’impegno civile e letterario di Pasolini si è formato a Casarsa.
Le poesie scritte tra il ’43 e il ’49 (raccolte nel 1958 ne L’usignolo della Chiesa Cattolica) rivelano questo e la contemporanea svolta politica del giovane scrittore: l’ultima parte de L’usignolo è intitolata La scoperta di Marx. In quello stesso periodo, dopo le lotte dei braccianti friulani, ha scritto la prosa de I giorni del lodo De Gasperi (che diventerà il romanzo Il sogno di una cosa, del 1962).
Gli anni di Casarsa furono dunque incancellabili. Altrettanto la partenza – la fuga, come Pasolini la definì – da quei luoghi. Il fatto che alla vigilia delle elezioni del 1948 un ragazzo confessasse al parroco di Casarsa di avere avuto rapporti con Pasolini rese in breve la vita impossibile al giovane insegnante.
Roma
Andò con la madre a Roma, e visse, all’inizio, anni difficilissimi, in cui fu “un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi”. Dapprima abitò in Piazza Costaguti, al Portico d’Ottavia. Poi in borgata, a Ponte Mammolo, vicino al carcere di Rebibbia. Registrare tali cambiamenti di indirizzo avrebbe relativa importanza per un altro scrittore: ma questi nomi, questi luoghi, come via Fonteiana, dove andò ad abitare non appena migliorarono le sue condizioni economiche, sono familiari ai suoi lettori: perché di queste esperienze, e delle visioni e dei paesaggi ad esse connessi ha nutrito, in parte, versi e prose.
Il padre li raggiunse presto, riportando i contrasti che Pasolini riuscì a vedere quasi con tenerezza, certo con pietà, solo dopo la morte di lui. Era intanto riuscito ad avere un impiego come insegnante a Ciampino, a 27.000 lire al mese; e più tardi, grazie a Bassani, potrà lavorare a qualche sceneggiatura cinematografica; il che rese possibile, dopo qualche tempo, il trasferirsi con i genitori a Monteverde, in via Fonteiana (“mio padre potè finalmente occuparsi di un trasloco che gli dava soddisfazione, che vellicava in lui il piacere del comando, della vanità, del decoro borghese”). Nel 1954 esce intanto la raccolta delle sue poesie friulane, col titolo La meglio gioventù; due anni prima, aveva pubblicato uno studio importante sulla poesia dialettale del Novecento, in collaborazione con Marco Dell’Arco.
Nel 1955, Pasolini, insieme a Roversi, Leonetti, Romanò, Fortini, lavora alla rivista “Officina”che resta, nonostante la sua breve durata (ne segnò la fine, nel 1959, un epigramma di Pasolini contro Pio XII) un’importante testimonianza di parte degli intellettuali italiani di fronte a problemi che sentivano affrontati dai più con automatismo e conformismo. Passione e ideologia (1960) e le liriche de La religione del mio tempo (1961) rappresentano il contributo pasoliniano a “Officina”.
“Ragazzi di vita”
Il 1955 è anche l’anno in cui Pasolini pubblica il suo primo grosso successo letterario, il romanzo che andava maturando fin dal ’50: Ragazzi di vita. L’argomento, di una crudezza allora del tutto inconsueta nel panorama letterario italiano, l’esperimento linguistico attuato nel trasferire e ricreare il linguaggio di un sottoploretariato mai visto prima con occhio così poco incline a velare la palese veridicità del racconto, e la pietà e l’arte che tenevano uniti i vari episodi che compongono il libro, attirarono l’attenzione sia del pubblico che degli addetti ai lavori. Citiamo qui le parole di Gianfranco Contini, che ne parlò come di un’epopea picaro-romanesca, aggiungendo “singolare che per esso, narici ordinariamente indulgenti si siano credute in dovere di farsi tanto emunte. Non è un romanzo? Difatti è un’imperterrita dichiarazione d’amore, procedente per ; all’interno dei quali, peraltro, sono sequenze intonatissime alla più autorevole tradizione narrativa , quanto dire ottocentesca”.
A vent’anni dalla pubblicazione, il valore del libro si dimostra ben al di sopra di quello di un semplice straziante documento e intatta è la poesia dolente del formicolio di ragazzi e bambini in una sorta di deserto urbano, delle lunghe scene notturne di imprese ribalde o crudeli, in cui spesso balena la morte; che è descritta appieno solo alla fine, quando il piccolo Genesio viene trascinato via dal fiume, in modo così privo di clamore drammatico da assumere funzione di simbolo. Per questo libro Pasolini subì un processo per “oscenità”: l’accusa è adesso insostenibile ma in quegli anni, per quanto assurda fosse, aveva un significato persecutorio preciso. Che cosa rappresentasse per lo scrittore la taccia di “oscenità” e, soprattutto, il processo, si può giudicare dai suoi versi:
Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l’amico, come incerto… Ah che cieca fretta
nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:
subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo…
Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia
se prima di ferirmi è passata per te…
“Le ceneri di Gramsci”
Questo è Recit ne Le ceneri di Gramsci. Il fatto che Pasolini abbia usato qui senza nessuna timidezza, vale a dire senza necessità di filtri ironici, uno dei metri più vieti della poesia italiana, il falso alessandrino di Pier Jacopo Martelli, per dire la sua emozione all’annuncio del processo datogli dall’amico Attilio Bertolucci, suggerisce molto sull’arte di Pasolini. Ci conosce la detestata cantilena di quel metro, chi sa con quale forza il “martelliano” evochi, nella sua facibilità e leggibilità assolute, la piatta “civiltà” e il “raisonnable”di un certo Settecento che contenne le tragedie e le passioni in confini il più possibile domestici, sa anche quale maestria e quale dramma abbiano portato Pasolini a scegliere e trasfigurare così un modello letterario tanto invecchiato e remoto.
Con la raccolta delle liriche de Le ceneri di Gramsci del 1957, (premiato quello stesso anno a Viareggio) Pasolini si conferma grande poeta: nel tracciare la strada ad una nuova poesia di impegno civile, senza rinunciare all’espressione dei suoi dubbi, delle sue angosce o irresistibili gioie, utilizzando, come nel citato Recit, una metrica desueta, in un procedimento che è rottura e citazione allo stesso tempo. Quell’anno muore il padre: “non si voleva curare, in nome della sua vita retorica. Non ci dava ascolto, a me e a mia madre, perché ci disprezzava. Una notte tornai a casa, appena in tempo per vederlo morire”.
“Una vita violenta”
Nel 1959 pubblica il romanzo Una vita violenta. Con questo libro Pasolini diventa uno dei pochissimi scrittori italiani la cui fama abbia superato i patrii confini. Undici traduzioni e quindici ristampe in Italia. E’ l’altra parte di quel che possiamo chiamare il dittico delle borgate romane. Più compatto e drammatico che Ragazzi di Vita, ha un vero protagonista nel ragazzo Tommaso Puzzilli. Gli anni non hanno tolto nulla alla disperata e feroce bellezza del libro, alla purezza delle linee di un dramma veramente fisso in parole non modificabili: quello di un giovanetto escluso in partenza, nonostante ogni suo tentativo, dal suo vero essere e, infine, tolto all’esistenza tout court. Anche in questo caso lo scenario è la Roma dei diseredati, anche qui gli attori sono i “ragazzi di vita”e molte delle gesta sono ancora criminosi espedienti a mezza strada tra l’ammazzare il tempo e il puro sopravvivere.
Racconto meno notturno del primo, e meno infantili i personaggi: è altrettanto implacabile invece l’osservazione, e l’esposizione, della miseria fisica e morale, e lo strumento del linguaggio gergale è divenuto ancora più perfetto. La coralità di Ragazzi di vita lascia luogo alla fatale precisione che sovrasta la vita breve di Tommaso, conducendolo per tappe obbligate alla morte che ha la sua remota ragione negli stenti sopportati. Alla cura e dura odissea del ragazzo dà maggior respiro, maggior dimensione poetica il fatto che al catalogo non sfuggano le gioie, gli estri (“sò stato ricco, e non l’ho saputo!” dirà Tommaso, guardando un branco di ragazzini) e le irrefrenabili speranze.
Mano sicura, occhi asciutti, unità di ispirazione: così viene seguita da Pasolini la figura di Tommaso nei suoi passi falsamente arroganti, nel suo batticuore, nei silenzi aggrottati, nei rossori. Nei capitoli finali, avvenimenti apparentemete slegati o causali, compiono, con la meravigliosa coerenza dell’inevitabile, il cerchio dei giorni di Tommaso: la malattia che si annuncia, l’scrizione al partito, l’uragano. Strappandosi alle chiacchiere del bar, va, quando “quelli del partito” vengono a chiedere aiuti per un quartiere inondato dalla piena, inseguito dall’ultimo e profetico lazzo degli amici di una volta: “San Tommaso, er santo dell’alluvionati”.
Il cinema
Apartire dal 1960 Pasolini scopre nel cinema un mezzo espressivo che si rivela straordinariamente adatto alle sue ricerche stilistiche e al suo bisogno di immediata comunicazione visiva. Il bellissimo Accattone del 1961 completa il discorso iniziato con i romanzi delle borgate, ne fissa in immagini quel che di splendido o atroce era sfuggito alla parola scritta.
In pochi anni Pasolini realizza una serie di film in cui ogni conquista del neorealismo è assimilata e immediatamente superata e che lo pongono tra i maggiori registi italiani (Mamma Roma, 1962; La ricotta in Rogopag, 1962-63; Il Vangelo secondo Matteo, 1964; Uccellacci e uccellini, 1966; Edipo re, 1967; Teorema, 1968; Porcile, 1969; Medea, 1970; fino alla “triologia della vita” o dell’eros, de Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972; Il Fiore dell Mille ed una Notte, 1974; Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975). Spesso violentemente discussi, questi film riflettono fedelmente le tappe dell’evoluzione intellettuale ed etica del loro autore; che si crea, con ogni mezzo offertogli dal patrimonio artistico umano, sia musica, pittura, letteratura, uno stile che trasfigura sempre liricamente il racconto.
Tale evoluzione interiore porta Pasolini a risultati veramente alti e nuovi nella lirica: perché ne La religione del mio tempo (1961), in Poesia e forma di rosa (1964), in Transumar e organizzar (1971), il diario intimo, la polemica sempre più amara man mano che la sua figura diviene pubblica, il rifiuto alla pacificazione, un disperato amore alla vita, il proprio eros doloroso, hanno accenti di libertà e coraggioche hanno pochi confronti in Italia, e sono espressi in uno stile che ha fatto parlare di splendido manierismo, di funebre e barocca passione. Minori a paragone, le recenti opere di narrativa: il romanzo Il sogno di una cosa (1962), i racconti di Alì dagli occhi azzurri (1964) e il pur notevole Teorema (1968) nel quale è evidente la metafora di significato religioso, nell’irruzione del divino in una famiglia-tipo nella Milano benestante. Gli ultimi anni Negli ultimi anni – nel valutare la sua figura di artista, bisogna pur sottolineare la versatilità e l’attività incessante, la creatività eccezionale di Pasolini – aveva intensificato gli interventi polemici e saggistici, alcuni dei quali sono raccolti in Empirismo eretico (1972) e in Scritti corsari (1975).
Pasolini è stato tra i maggiori suscitatori di scandalo intellettuale; si può dire che lo è stato già dal tempo in cui era uno sconosciuto poeta e filologo, anche se, ovviamente, in modo assai meno clamoroso; e del resto il numero di denunce, alcune delle quali gratuite o completamente fantasiose, che si tirò addosso, è di per sé significativo. Questi scritti polemici erano destinati a suscitare reazioni o critiche violente anche perché riflettevano in modo trasparente le personali tragedie di Pasolini e l’affidarsi indifeso agli occhi e alla bocca di tutti poteva apparire anche impudicizia e provocazione al martirio. Qualunque fosse il soggetto affrontato, ne traspariva sempre una sorta di ricerca dell’assoluto, una ricerca della “moralità” nel più alto senso della parola che riusciva, ai più, sconcertante. Nella profonda consapevolezza e accettazione della sua condizione di “diverso”, e quindi di “escluso”, di “additato”, Pasolini intervenne nelle più cocenti discussioni con la veemenza del mite di fronte allo scandalo vero, alla violenza autentica dell’ipocrisia e della falsa tolleranza. All’alba del 2 novembre 1975, Pasolini viene trovato ucciso in uno spiazzo sabbioso presso Fiumicino, su uno sfondo di baracche e rifiuti, in un luogo che gli era ben noto. La scena del delitto, le probabili circostanze della morte, la furia esercitata sul suo corpo: tutto ha contribuito a rendere la fine di Pasolini ovvia e incredibile al tempo stesso, come potrebbe esserlo un suicidio. Le certezze di Pasolini sulla cieca banalità violenta che si vedeva crescere intorno hanno preso corpo tanto rapidamente da sembrare ai più il presagio di un destino disegnato in parte da lui stesso. Certo è che il silenzio prematuro di una simile voce, di un’intelligenza così agguerrita e affilata, di uno spirito così attento ad ogni cosa umana, è una grande tragedia della cultura italiana di questi anni incerti e sconvolti. Tratto da: R.G., introduzione a “Passione e ideologia”(1960), nella collezione “Opere di Pier Paolo Pasolini”, Garzanti 1977 Narrativa: Il sogno di una cosa, 1950; Ragazzi di vita, 1955; Una vita violenta, 1959; Amado mio - Atti impuri, 1946-48 (?) (postumo, 1982); Alì dagli occhi azzurri, 1965; Teorema, 1968; Petrolio, postumo, 1975; Storie della città di Dio, (postumo, 1995); La divina mimesis (postumo, 1995); "Un paese di temporali e di primule", di P.P. Pasolini (postumo, 2001), a cura di Nico Naldini.
Poesia:
La meglio gioventù, 1954; Le ceneri di Gramsci, 1957; L'usignolo della chiesa cattolica, 1958; La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971; La nuova gioventù, 1975
Saggistica:
Passione e ideologia, 1960; Canzoniere italiano, poesia popolare italiana, 1960; Empirismo eretico, 1972 (1965-71); Le belle bandiere, 1977 (pubblicazione postuma) («Il caos», 1960-1965); Descrizioni di descrizioni, 1979 (pubblicazione postuma) («Tempo», 1972-1975); L'odore dell'India, 1961; Il portico della morte (pubblicazione postuma, 1988); Scritti corsari, 1975; Lettere luterane,1975 (pubblicazione postuma, 1976); Lettere, raccolte a cura di Nico Naldini, pubblicate 1986 e 1988.
Cinema:
Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; La ricotta, 1963; La rabbia, 1963; Comizi d'amore, 1963-64; Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo; Il Vangelo secondo Matteo, 1963-64; Uccellacci e uccellini, 1965; La terra vista dalla luna, 1966; Che cosa sono le nuvole?, 1967; Edipo re, 1967; Appunti per un film sull'India, 1967-68; Teorema, 1968; La sequenza del fiore di carta, 1968; Porcile, 1968-69; Appunti per un'Orestiade africana, 1968-69; Medea, 1969-70; Il Decameron, 1970-71; Le mura di Sana'a, 1970-71; I racconti di Canterbury, 1971-72; Il fiore delle Mille e una notte, 1973-74; Salò o le centoventi giornate di Sodoma, 1975.
Teatro:
Orgia, 1968; Porcile, 1968; Calderón, 1973; Affabulazione, pubblicazione postuma, 1977; Pilade, pubblicazione postuma, 1977; Bestia da stile, pubblicazione postuma, 1977.