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Policarpo Petrocchi e l’emigrazione nelle pagine de “Il mio paese”.

Policarpo Petrocchi e l’emigrazione nelle pagine de “Il mio paese”.

Nel pistoiese il precario equilibrio tra popolazione e risorse basate sull'economia della castagna diviene insostenibile da inizi '800. Contadini, carbonai e tagliaboschi non ebbero altra scelta che “partire per rimanere” a vivere la montagna.

13 Settembre 2021


ParkTime Magazine n. 16

Il parco letterario Policarpo Petrocchi di Castel di Cireglio e l’emigrazione nelle pagine de “Il mio paese”. 

 Lo stigma
 “Anche il mio babbo è in Calabria e io penso sempre a lui. Quando ho preso la licenza di terza ci vo anch’io in Maremma” conclude così un suo componimento nel 1929 Dino Mei, alunno della classe terza della scuola elementare di Campiglio di Piazza.
 Il testo è scritto nella primavera, il babbo di Dino è ancora in Calabria ma in estate tornerà a casa come mille altri pistoiesi, pronto a ripartire, però, nell’inverno successivo e Dino sa che in quella stagione del 1929 toccherà anche a lui iniziare la trafila dell’emigrazione temporanea dal Pistoiese verso la meta più comune e vicina: la Maremma. Poi il raggio si allargherà fino alle Calabrie, la Corsica e anche l’Africa del Nord nel ciclo dell’emigrazione temporanea stagionale che potrà, comunque, diventare definitiva in Francia, Americhe e dal secondo dopoguerra in Svizzera e Germania.
 Nella semplicità e compiutezza delle parole di Dino è compendiato lo stigma della sua vita e di tanti della sua età, un destino accettato come inevitabile, vissuto e percorso dai suoi genitori, nonni, avi in un viaggio a ritroso che si perdeva nella notte dei tempi: era sempre stato così e sempre sarà.
 In effetti, dal Pistoiese si emigra fin dal Medioevo per la Maremma e l’isola d’Elba e anche in epoca moderna ma è a partire dalla Restaurazione che con l’aumento delle nascite il precario equilibrio tra popolazione e risorse diviene insostenibile e contadini, carbonai e tagliaboschi non hanno altra scelta che partire. “Partire per rimanere” è l’apparente ossimoro che li caratterizza; occorre “partire” per poter “rimanere” a vivere in montagna, così come può apparire contraddittoria una definizione del sociologo francese Paul Roux che nel 1910 scrive a proposito della castagna che costituisce l’alimentazione base di tutta la popolazione: “La castagna allontana e trattiene insieme: trattiene per la facilità della raccolta, allontana per l’insufficienza della sua quantità” riassumendo così il dramma della sottoalimentazione della montagna e della conseguente emigrazione.

 Il Parco letterario Policarpo Petrocchi
 Ma torniamo a Campiglio di Piazza, il paese di Dino Mei, carbonaio a nove anni nel 1929. Campiglio si trova sulle pendici della valle del Vincio di Brandeglio, un affluente dell’Ombrone pistoiese, una manciata di case a breve distanza da Pistoia e a poche centinaia di metri d’altitudine. Più in alto, a dominare l’intera valle, si trova Castello di Cireglio, il paese di Policarpo Petrocchi che in questo 2021 ha visto nascere l’omonimo Parco letterario, secondo in Toscana. Durante la “Prima Festa del Parco”, il 27 agosto, si è parlato del volume “Il mio paese”, il libro autobiografico di Policarpo composto intorno al 1880 in cui il lessicografo descrive la vita quotidiana degli abitanti di Castel di Cireglio il paese che gli ha dato i natali nel 1852 e in cui muore nel 1902, analizzando in particolare le pagine dedicate all’emigrazione pistoiese.
 Un argomento descritto, studiato e analizzato per decenni da studiosi, sociologi, storici ma che trova una fonte letteraria estremamente calzante, chiara e completa nelle pagine del libro di Policarpo, in cui si dipana un racconto corale in cui i personaggi sono i suoi famigliari e tutti gli abitanti di Castello che prendono vita nelle strette vie e nelle piazzette dell’abitato come interpreti di un’epopea collettiva in un palcoscenico sociale.
 Ecco quindi che il padre di Policarpo ci mette di fronte alla facilità della partenza quando narra che in gioventù gli viene proposto di andare a fare il carbonaio per una stagione a Nettuno, nella Maremma laziale: l’invito è accolto immediatamente e senza ripensamenti ma una volta giunto a Roma si rende conto di non trovarsi bene con i compagni di lavoro e decide di rientrare, facendo per un breve tempo il cocchiere per procurarsi i denari per il viaggio di ritorno. Colpisce la facilità con cui in quei tempi era possibile partire, cambiare idea, improvvisarsi un nuovo mestiere e ritornare al paese, accettando l’emigrazione con naturalezza e come opportunità di migliorare le condizioni di vita.
 Ma è nelle pagine finali del volume che Policarpo descrive il rito collettivo della partenza con pagine di vera e propria letteratura venate da un registro quasi giornalistico.
 Il racconto inizia dal mese di ottobre con la raccolta delle castagne e la loro essiccazione nel metato per farne farina e una volta concluso questa operazione Policarpo scrive: “ … il paese sente che la sua festa è finita; i Morti chiudono tutta la baldoria; son l’ultima scena allegra della stagione”. L’avvicendarsi naturale delle stagioni, il cambio delle temperature, la cessazione dei lavori agricoli, la mancanza assoluta di alternative alla propria professionalità di carbonai e taglialegna impongono la partenza.

 E allora:

 Sì, la festa de’ Morti è l’ultima festa: il giorno dopo il paese si spopola; gli uomini vanno lontano in cerca di lavoro per tutto l’inverno, e lasciano la moglie e i figlioli soli: questi, finché non abbiano l’età di portare un’accetta. Vanno a lavorar il ferro, a far carbone, alle miniere; provvisti d’un par di scarponi impuntiti e imbullettati a doppio, d’una accetta, d’un paio di camiciole e di due camicie. Fanno il fagotto; dentro ci metton dentro il Tasso o l’Ariosto o qualche altra storia in poesia; per legger la sera a capanna, quando non hanno da far altro; infilano nel fagotto l’accetta, e quella notte partono. 

 Ma non sono partenze individuali:

 Prima, vanno a dir addio di famiglia in famiglia; e chi può tien preparato un fiasco di vino e un piatto di bruciate … È una sera malinconica. Già dopo cena, tutti hanno detto il rosario a’ poveri morti … poi nessuno è andato a letto; prima perché è un viavai di uomini che vengono a dir addio, poi perché la notte c’è la messa e tutti vanno. Tutta la sera è un far padellate di bruciate e un mondare. Vengono gli uomini che hanno a partire; son allegri e melanconici: hanno quell’ansia nascosta di far un buon affare e la paura di farne uno cattivo.

    E ancora l’attenzione di Policarpo si sposta sul padre, calzolaio, che interpellato dai compaesani afferma lapidario “Che ci si fa in questi paesi? A morir d’inedia? Che ci si quassù d’inverno. A caccia? Non c’è più niente; a guardar la casa? Si guarda da sé”. In poche parole un compendio di vita sociale della montagna ottocentesca pistoiese. E infine Policarpo torna a un tono letterario disteso, colto, fluido, una conclusione di alcune tra le più belle pagine della sua memoria cristallizzata nella sua penna milanese.

 E partono; (l’incipit fa venire alla mente l’apertura copulativa del pascoliano “Gelsomino notturno” con cui si riprende un discorso riallacciandosi a un precedente enunciato) e mio padre finisce gli scarponi a qualcheduno che andrà via domattina; son già le tre di notte, è stato un viavai, uno sgusciar bruciate, un dormicchiare di noi ragazzi che non si voleva andar a letto; si sente fori un passar di gente; son degli altri paesi che s’avviano alla chiesa.

 E conclude con una riflessione personale: “ … m’avvio a casa, con un freddo nelle ossa portato dalla mattina fresca e più dall’idea che pur troppo fra poco c’è anche la mia di partenza per la Maremma”.

 Policarpo come Dino Mei di quasi cinquanta anni dopo? In effetti Giovanni Capecchi, nel suo commento al testo traslittera la Maremma con la città di Pistoia dove Policarpo tornerà per completare gli studi; a confermare, comunque, che tutti, forse ancora oggi, abbiamo una nostra Maremma che ci attende.

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