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Il mestiere di leggere

25 Maggio 2022
Il mestiere di leggere
Per lui, che considera la lettura una componente essenziale e irrinunciabile dell'umana esistenza, il mestiere di leggere può e deve sostenere il mestiere di vivere, rendendolo non solo meno faticoso e intollerabile, ma anche meno arido e insignificante.

Anco chiude il libro, ma trattiene tra le pagine il dito indice della mano destra a mo' di segnalibro, in attesa di riprendere la lettura, dopo aver riposato per un po' gli occhi stanchi. Come fa ogni volta. Stavolta, però, senza che sia stata programmata, la pausa è destinata a durare più del solito, perché d'improvviso e in modo inaspettato nella sua mente si accende una danza vorticosa di riflessioni e di ricordi, in cui egli si lascia trascinare senza opporre resistenza.

Si sorprende subito a pensare, chissà perché, che ha sempre provato un gran diletto a immergersi nella lettura. A partire dall'adolescenza, lo ha fatto quasi tutti i giorni, per tutta la vita. A maggior ragione ha continuato a farlo in età avanzata, avendo molti interessi giovanili perduto di senso e di valore. Ancora di più lo fa adesso, che la perdurante pandemia lo costringe agli arresti domiciliari. E, siccome i programmi televisivi da molto tempo gli riescono insopportabili per la loro insulsaggine, la lettura rimane più che mai una fedele e amata compagna per lui, che peraltro è incline per natura alla sedentarietà.

È poi convinto che, pur nel variare delle situazioni, la lettura gli giova, perché produce effetti comunque benefici. Di volta in volta lo aiuta a ricordare o a dimenticare, lo distrae e l'ammonisce, lo diverte e lo consola. Sì, - egli pensa - aveva proprio ragione Ecateo di Abdera a scrivere che “il libro non è altro che una clinica dello spirito”. Sempre, infatti, nei tempi di bonaccia come nei momenti di ambascia, leggere produce importanti effetti terapeutici, avvolgendo con il tiepido calore medicamentoso dei sogni o dei ricordi.

Se ciò non bastasse, riflette Anco, la lettura ha il pregio di tenerlo lontano dal fastidioso frastuono della vita quotidiana. Non è cosa dappoco. Non che egli sia poco socievole. Anzi. Non solo non ha mai disdegnato, ma ha sempre coltivato le relazioni nell'àmbito ristretto della vita familiare e in quello più allargato degli amici o dei colleghi di lavoro. Ma ha sempre detestato la confusione e si è sempre tenuto lontano dalla folla. Un agorafobo, direbbero gli psicologi.

Sempre riguardo ai benefici della lettura, egli non trascura infine l'aspetto sicuramente più importante, il nutrimento intellettuale e spirituale che ne trae quotidianamente. Per questo motivo, prendendo a prestito le parole di una famosa lettera scritta da Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori, compiaciuto sussurra a se stesso: «Mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch'io nacqui per lui».

Continuando a seguire il filo lungo dei suoi pensieri, Anco riconosce che la lettura è come un magnete e possiede un'irresistibile forza attrattiva, perché colora e riempie di senso le giornate, aprendo allo sguardo orizzonti nuovi e mondi sconfinati. Solo la lettura, infatti, compie il miracolo stupefacente di abolire i confini dello spazio e del tempo e di far compiere, pur restando fermi, viaggi inimmaginabili e meravigliosi. Perdipiù, insinuando lo stesso ardente desiderio di conoscenza che spinse l'Ulisse dantesco ad oltrepassare le Colonne d'Ercole, i viaggi attraverso i testi letterari permettono di staccarsi dalle misere opacità terrene e di librarsi nel regno luminoso dello spirito.

In conclusione, senza tirarla ancora troppo per le lunghe, Anco ammette di essere affetto da molti anni da una forma molto grave di bibliomania, da cui non è riuscito a guarire.

Non vi è riuscito, perché non è mai voluto guarire. In questo vorticoso turbinio di pensieri, che gli sono serviti solo a ribadire a se stesso ciò che gli è chiaro da sempre, però, ha anche modo di ripensare al suo rapporto con il grande numero di libri, che ha l'orgoglio di possedere o che comunque sono passati e passano tra le sue mani. E non può fare a meno di sorridere imbarazzato all'inattesa comparsa di un frammento d'immagine, che d'un tratto gli balena davanti agli occhi e lo coglie nel gesto rituale di accarezzare con delicata cura il dorso di un libro, mentre ne trae fuori qualcuno dalla libreria o lo ripone al suo posto.

A questo punto Anco si chiede se sia ancora valida la vecchia regola da lui stabilita di suddividere i libri in tre categorie: da comodino, da poltrona e da tavolo. A prima vista può apparire una tripartizione un po' strana, ma lui continua ad essere convinto che non è priva di significato e merita di essere considerata e condivisa.

 Alla prima categoria, dunque, appartengono i testi che possono essere letti senza un particolare sforzo, perché hanno il pregio di risultare di facile comprensione e di essere rasserenanti. Servono, perciò, a dare un po' di ristoro nei momenti di inquietudine o magari a conciliare il sonno dopo una giornata dura e impegnativa.

I libri da poltrona, invece, che si tratti di romanzi, di saggi o di poesia, hanno la prerogativa di essere per forma e contenuto non ostici ma neppure semplici, sono cioè di media difficoltà e si rivelano, man mano che la lettura procede, utili ed interessanti. Reclamano, per questo, una maggiore dedizione.

Vi sono, infine, i libri da tavolo. Per molte e varie ragioni, che è perfino inutile elencare, sono i più impegnativi e la loro lettura esige il massimo impegno intellettivo. Vale a dire che non possono essere solo letti, ma devono essere studiati con grande applicazione e un elevato grado di concentrazione, perché possano essere compresi e metabolizzati in maniera soddisfacente.

All'interno di questa tripartizione generale, Anco ha creato un'ulteriore curiosa distinzione trasversale, basata su criteri più oggettivi di valutazione, che dà vita a due gruppi del tutto antitetici fra loro. Nel primo sono collocati i libri che, fatta stancamente la spola per un po' di tempo tra il comodino e la poltrona, per la loro insignificanza finiscono per essere del tutto accantonati e dimenticati senza rimpianto, dopoché ne è stata sfogliata per qualche giorno una manciata di pagine in maniera svogliata e con un senso di crescente fastidio. Ciò, a dire il vero, accade raramente. Ma non si può negare che sia già accaduto e che ancora accada.

Sorte ben diversa, anzi del tutto opposta, tocca ai libri, né pochi né tanti, che meritano un'alta, altissima considerazione. Essi finiscono per essere fedeli e inseparabili compagni di viaggio nel corso dell'intera esistenza. Terminata, infatti, una prima lettura, per svariati motivi sono ripresi tra le mani più e più volte per una nuova lettura, parziale o integrale che sia. Sono i libri che si ama designare con il solenne nome di “classici”.

Non stupisce che a questo punto nella mente di Anco affiori il ricordo di alcune opere che, una volta entrate a far parte della sua vita, ne sono diventate parte integrante. Prima fra tutte, e non solo in senso cronologico, vi è quel meraviglioso «romanzetto ove si tratta di Promessi Sposi». Egli prova un grande piacere a ricostruire mentalmente la storia del suo rapporto con il capolavoro manzoniano, che non esita a considerare il libro della vita, il suo breviario laico.

 Più volte ne aveva sentito parlare fin da piccolo, lo lesse per la prima volta a scuola in quinta ginnasio e lo rilesse tre anni dopo in vista degli esami di maturità. All'Università se lo ritrovò di nuovo tra le mani quando preparò un esame molto impegnativo. La lettura fu supportata in questa ultima occasione dall'ausilio del sublime saggio “Problemi di metodo critico” di Salvatore Battaglia, l’illustre linguista e storico della letteratura italiana, che fu docente in quegli anni all'Università “Federico II” di Napoli.

Il giovane studente ebbe allora l'occasione di incrociare Giovita Scalvini, uno dei primi critici a occuparsi dei “Promessi Sposi”. Del patriota e scrittore bresciano lo colpì, in particolare, l'appassionato appello a diffondere la conoscenza del romanzo del Manzoni, invitando a leggerlo dappertutto, nelle scuole, nelle chiese, nelle osterie, per la strada. Una volta entrato nel mondo della scuola, non esitò, dunque, ad accogliere la calda esortazione dello Scalvini e lo lesse per oltre trent'anni ai suoi studenti.

Ebbe così modo di fare una duplice straordinaria esperienza. Ad ogni nuova lettura da un lato sperimentava che il capolavoro manzoniano, come ogni vera opera d'arte letteraria, gli proponeva nuove interpretazioni, gli svelava nuovi significati, comunicava nuove suggestioni, regalava nuove emozioni. Dall'altro prendeva atto con soddisfazione che gli alunni ne erano immancabilmente coinvolti e affascinati. E ne davano prova anche a distanza di anni, quando, divenuti ormai padri, madri o addirittura nonni, incontravano il loro vecchio prof e ci tenevano a ricordare quelle appassionanti letture con grande nostalgia e sincera commozione.

Anco non può dimenticare, infine, che il romanzo manzoniano diventò un buon viatico nel lungo e affascinante itinerario, che gli permise di esplorare il mondo della grande narrativa europea e di incontrare Walter Scott, Victor Hugo, Gustave Flaubert, Guy de Maupassant, Lev Tolstoj, Fëdor Dostoevskij e tanti altri.

Ma il fatto davvero singolare, che lo lascia ancora oggi stupefatto, è che, per una fortuita e fortunata coincidenza, il primo incontro con l'opera manzoniana avvenne quasi in contemporanea con la scoperta di un altro libro che avrebbe segnato la sua vita. Fu sempre negli anni degli studi ginnasiali ad Empoli che un padre scolopio gli suggerì la lettura del “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi. Doveva essere un gran libro, se a quindici anni dalla sua pubblicazione continuava a godere di un clamoroso favore di pubblico, a dispetto dei giudizi non proprio lusinghieri, spesso del tutto negativi, di alcuni critici, che non seppero, o non vollero, riconoscerne le qualità, forse perché l'opera non era rispondente al loro modello di ideologia letteraria e politica.

Anco ne rimase folgorato. Fu immediatamente rapito dalla maestria narrativa dello scrittore torinese nel raccontare storie e leggende della terra lucana e fu sedotto dalla sua straordinaria capacità di dipingere con le parole le persone e i luoghi, che aveva avuto modo di conoscere durante la sua breve permanenza al confino prima a Grassano e poi ad Aliano.

La prima febbrile lettura del “Cristo” leviano e le più pacate riletture successive gli spalancarono le porte della letteratura meridionale e meridionalistica: Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Antonio Gramsci, Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini e Tommaso Fiore, Ignazio Silone e Corrado Alvaro, Michele Prisco e Giuseppe Marotta, Leonardo Sinisgalli e Albino Pierro, Carlo Alianello e Giovanni Russo, Rocco Scotellaro e Gilberto Marselli sono solo alcuni dei nomi di una lista interminabile.
Ma la conoscenza di Carlo Levi lo sollecitò a perlustrare anche il versante della letteratura resistenziale e allora incontrò Carlo Cassola e Vasco Pratolini, Cesare Pavese e Norberto Bobbio, Beppe Fenoglio e Renata Viganò, Ada Gobetti e Nuto Revelli.

Sempre grazie a Carlo Levi, infine, s'imbatte in Umberto Saba, che lo ammalia fin dal primo momento per la sua rara virtù di saper cogliere l'essenza poetica e la presenza divina nella grigia quotidianità. Anco è attratto irresistibilmente dai versi del tormentato poeta triestino, che abbraccia nel suo afflato umano e poetico gli uomini, gli animali, gli oggetti, i luoghi, insomma un intero universo umile e negletto, e lo rappresenta con il lessico semplice ma intenso della sua “poesia onesta”, dopo averne colto le intime e recondite vibrazioni dell'anima. Il poeta accoglie con dolcezza e amore tutti gli esseri, anche i più apparentemente insignificanti, nel dolce rifugio del suo Canzoniere, perché sa che hanno un'anima e «sono tutte creature della vita / e del dolore, / s'agita in esse, come in me, il Signore».

Intanto nella mente di Anco continua a scorrere, lento ma inarrestabile, il flusso dei pensieri. Allora egli chiude definitivamente il libro, lo posa sul tavolo, incrocia le mani dietro la nuca e si lascia sfiorare con voluttà dall'onda lunga dei ricordi che si alternano senza sosta e spesso si accavallano con brevi riflessioni.

È proprio vero, gli vien fatto ora di pensare che la vita è spesso determinata, nel bene e nel male, anche dagli incontri, il più delle volte casuali, che ognuno fa. Non si è sottratto alla regola neppure lui, Anco, nelle vesti di “homo legens”. Negli anni degli studi universitari, infatti, risulta decisivo l'incontro con Vincenzo Cilento, che lo introduce nel mondo incognito e affascinante delle religioni antiche e del neoplatonismo, quando è solo un giovane studente impegnato con vivo entusiasmo in un meraviglioso viaggio di esplorazione attraverso il mare magno della classicità.

La navigazione avviene sotto l'accorta guida di esperti navigatori quali Armando Salvatore, Vittorio De Falco, Lidia Massa Positano, Marcello Gigante e Giovanni Alessio. Sono loro che gli permettono di proseguire il fantastico periplo iniziato negli anni liceali con la preziosa assistenza di Giovanni Tramice, Donato Gagliardi e Pasquale Loiso e lo fanno approdare nei porti incantevoli e ospitali della grecità e della latinità, dove conosce più da vicino Omero, Sofocle, Platone, Epicuro, Tucidide, Lisia, Plutarco e poi Catullo e Lucrezio, Virgilio e Orazio, Sallustio e Cicerone, Tacito e Seneca e molti altri. È un'avventura davvero fantastica per lui, un giovane in cerca di autori.

Il magistero di Cilento non si esaurisce con gli studi universitari, ma idealmente continua nel tempo e tuttora perdura. Anco continua, infatti, a nutrirsi ancora oggi della lettura dei “Saggi su Plotino”, della “Comprensione della religione antica” e della superba trilogia “Pygmalion”, “Trasposizioni dell'antico”, “Medioevo monastico e scolastico”, che vide la luce tra il 1961 e il 1972. Spesso si ritrova tra le mani anche il volumetto “Ore di poesia”, una deliziosa silloge poetica, pubblicata postuma, di 49 raffinate liriche composte nelle ore che l'autore era riuscito a ritagliarsi tra il lavoro di ricerca, l'insegnamento e i doveri del ministero sacerdotale. Sono tutte opere affascinanti per lui, che ad ogni nuova lettura non sa se di Cilento si debba ammirare di più la vastità della cultura, la profondità del pensiero o l'eleganza della scrittura, tersa, levigata, armoniosa come una scultura fidiaca.

Per questo motivo Anco neppure si meraviglia che le opere del dotto barnabita stiglianese meritino ancora oggi l'attenzione e la considerazione degli studiosi più autorevoli del mondo antico, come prova la ripubblicazione nel 2002, a distanza di oltre quarant'anni dalla prima edizione, dell'opera “Plutarco - Iside e Osiride e Dialoghi delfici” con la traduzione e gli apparati di Vincenzo Cilento. Giovanni Reale, curatore della prestigiosa collana dei classici della Bompiani, non a caso la considera un classico, oltre che per la profonda conoscenza della materia trattata, per la finezza e per il tono poetico della traduzione.

Per tutti questi buoni motivi Anco, rimasto per molto tempo come in preda a un incantesimo, prende ora a fantasticare che un giorno, come è accaduto vent'anni prima nella vicina Aliano per Carlo Levi, possa realizzarsi il sogno dell'istituzione a Stigliano di un Parco Letterario dedicato a Vincenzo Cilento. 
 Sarebbe davvero un bel modo non solo di onorare la memoria di uno stiglianese considerato uno dei maggiori studiosi al mondo di Plotino e del neoplatonismo, ma anche di farlo conoscere, per quanto possibile, al di fuori della importante, ma ristretta cerchia degli addetti ai lavori.

Sarebbe anche un meritato riconoscimento per il barnabita, che fu intrinseco di Benedetto Croce, il quale ne propiziò la pubblicazione presso Laterza della prima, e tuttora insuperata, traduzione integrale delle Enneadi. Il grande filosofo, infatti, molto apprezzava e amava l'umile e dotto sacerdote lucano, perché comprese che in lui l'antico germe socratico della identità tra virtù e sapere produceva frutti copiosi. In effetti, non è esagerato affermare che in Vincenzo Cilento, capace di testimoniare in maniera sublime il nesso inscindibile fra vita intellettuale e vita morale, sembrò rivivere dopo 1700 anni l'alto spirito contemplativo dell'amato Plotino.

Si arresta qui l'impetuosa e interminabile corrente di ricordi e di fantasticherie. Ma, prima di rituffarsi nella lettura, Anco ha modo di indugiare su un altro pensiero, che da qualche tempo si è accampato nella sua mente. Sa che in una società qual è la nostra, in cui dominano vecchi e nuovi “idola tribus” e trionfa il feticismo delle immagini, molti ritengono che il destino del libro sia inesorabilmente segnato e addirittura ne hanno decretato il “de profundis”. Eppure, lui è certo che la scomparsa della lettura per fortuna è ancora di là da venire e che al libro è riservato il ruolo di un nuovo protagonismo. Con questa convinzione Anco continua a mormorare fra sé e sé “Leggo dunque sono”, evocando la celebre formula di Cartesio.

Per lui, che considera la lettura una componente essenziale e irrinunciabile dell'umana esistenza, “il mestiere di leggere” può e deve sostenere “il mestiere di vivere”, rendendolo non solo meno faticoso e intollerabile, ma anche meno arido e insignificante.

Angelo Colangelo


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