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Grazia Deledda, vita da donna e vocazione alla scrittura

Grazia Deledda, vita da donna e vocazione alla scrittura

Grazia Deledda riuscì a coniugare nella sua vita di donna, la cura della famiglia con la sua grande, vera vocazione alla scrittura. Unica donna dei sei Premi Nobel per le lettere italiane. Di Neria De Giovanni

08 Marzo 2021

Un’intera comunità nella Norvegia puritana riacquista il piacere del sorriso e dello stare insieme grazie al “Pranzo di Babette” nello splendido racconto omonimo di Karen Blixen. La convivialità come espressione primaria di gioia di vivere è espressa allo stesso modo in culture e Paesi diversi, dal Giappone di Banana Yoshimoto al Cile di Isabel Allende, alla Danimarca della Blixen, alla Sardegna del Premio Nobel Grazia Deledda.

La donna che scrive ha con la cucina, da sempre, un rapporto di doppia valenza. In quanto donna si scontra con le ‘domestiche’ faccende, quindi impara presto a cucinare per sé e per gli altri. Ma in quanto donna che scrive deve conquistare un suo spazio anche all’interno del codice comportamentale che donnesco non è, bensì squisitamente, all’origine, maschile.
Molte scrittrici hanno vissuto così il loro lavoro intellettuale con vistosi sensi di colpa, come tempo ‘rubato’ alle attività riconosciute femminili. Alla cucina, appunto. Tutti ricordiamo le sorelle Brontë, sottomesse ad un padre severo, ministro di fede protestante, costrette a nascondere sotto le bucce di patate, appena pelate, le pagine scritte dei loro capolavori di narrativa.
Ed Alba De Cespedes, nel 1952, dà alle stampe un libro divenuto esemplare, Quaderno proibito, in cui la protagonista Valeria scrive di notte, in cucina, dopo aver riassettato i piatti e messo a letto marito e figli, nascondendo il ‘quaderno proibito’ perché per scriverlo è convinta di aver trascurato la famiglia.

Grazia Deledda riuscì a coniugare nella sua vita di donna, la cura della famiglia con la sua grande, vera vocazione alla scrittura. Nella sua narrativa la casa ed in particolare la cucina è il luogo dove si scatenano le tempeste dei sentimenti, si coltivano rancori ed odi, si arriva al pentimento ed alla espiazione. La cucina inoltre è l’unica stanza in cui le rigide divisioni tra i ceti sociali ed i sessi, padroni e servi, maschi e femmine, possono magicamente essere abbattute. In cucina dorme il servo accanto al camino e la padrona prepara il caffè per l’ospite (Canne al vento); in cucina può entrare il bandito in fuga e trovare conforto ed amore tra le braccia dell’ex-padrona (Marianna Sirca); nel giaciglio allestito in cucina, il vano più caldo della casa nel rigido inverno nuorese, si compie il rito di morte con cui Annesa, ‘figlia d’anima’, uccidendo il vecchio zio Zua, sacrifica la propria giovinezza al rimorso, per salvare il padrone-amante (L’Edera).

Nonostante la febbrile attività di scrittrice, lei cucinava personalmente per la sua famiglia e in una lettera ricorda che quando il messo dell’ambasciata di Svezia le comunicò nel novembre 1927 il conferimento del premio Nobel, salutandola le baciò la mano che odorava di cipolla in quanto aveva appena finito di preparare un gustoso soffritto per il sugo.

“Salute” così si congeda Grazia Deledda alla fine del brevissimo discorso di ringraziamento alla consegna del Premio Nobel il 10 dicembre 1927 (assegnatole per il 1926). “Salute” come usavano augurare i pastori della sua Barbagia, a Nuoro, dove nacque il 28 settembre 1871, in una famiglia di sette figli, due maschi e cinque femmine.
Veniva da una Sardegna diversa per cultura e lingua; su di lei, inizialmente, pesò il solito pregiudizio nei confronti delle donne scrittrici. Piccola (era alta m. 1,54 e calzava il n.32!) e non bella, senza clamori o scandali, grazie al suo coraggio e ad una ferrea volontà, seppe raggiungere lo scopo che si era prefissa, la meta intravista sognando chiusa tra i monti di Nuoro.

Unica donna dei sei Premi Nobel per le lettere italiane, Grazia Deledda è tra 16 donne contro ben 101 uomini in tutto il mondo che hanno ottenuto il prestigioso riconoscimento. Oggi, i 150 anni dalla nascita si celebrano contemporaneamente ai 150 anni di Roma Capitale, dopo l'arrivo dei Bersaglieri a Porta Pia nel febbraio del 1871.
Roma cui Grazia guardò sempre come meta per il suo scopo di vita, far conoscere al mondo la sua Sardegna, con usi e costumi, con tradizioni e aspirazioni sociali. Ma, come ebbe a dichiarare dopo il Premio Nobel “se fossi nata a Roma o a Stoccolma, sarei stata sempre quella che sono, un'anima che si appassiona ai fatti della vita”.
Forse per questo la Deledda è così amata in tanti Paesi dove la sua narrativa è stata tradotta, forse per questo è riuscita così bene a descrivere le vite e i personaggi, le storie intime e sociali dei luoghi dove il destino la portò a vivere; Roma, innanzitutto, ma anche Cervia, la città romagnola dove passò molte estati fino all'ultima del 1935 e Cicognara, nella Bassa padana, paese di cui era originario il marito Palmiro Madesani.

Certo la Sardegna resterà nel suo cuore per sempre e per questo si dispiaceva tantissimo quando tutti parlavano e scrivevano di lei tranne la pubblicistica locale sarda che non fu mai benevola nei suoi confronti. Quasi a farle scontare la “colpa” di essere diventata famosa allontanandosi dall'Isola. Ma il suo fu soltanto un allontanamento fisico, e tanti sono gli episodi della sua vita a testimoniarlo. Per esempio, quando lo zio mons. Cambosu andò a trovarla a Roma, la Deledda non lasciò uscire di casa lo zio perché ”da noi, donne e preti non vanno mai soli dopo il tramonto”: abitava a Roma da molti anni eppure diceva ancora “da noi” riferendosi alle tradizioni barbaricine.

Venne sepolta nel cimitero monumentale del Verano e volle che sulla sua tomba svettasse un piccolo nuraghe. La sua terra che non l'aveva molto amata in vita, l'accolse con tutti gli onori quando nel 1959 su volere dei familiari, la sua salma fu riportata in Sardegna su un volo di Stato. Atterrò all'aeroporto militare di Alghero-Fertilia, ad attenderla il presidente del Consiglio dei ministri, il sardo Antonio Segni. Discorso ufficiale affidato allo scrittore Bonaventura Tecchi. Adesso dorme nella Chiesa della solitudine, a Nuoro, ai piedi del suo Monte, in quella chiesa (e titolo del suo ultimo romanzo la cui protagonista, Maria Concezione, era malata dello stesso male di cui morì Grazia e che oggi, invece, grazie alla medicina, risparmia molte donne.

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