Scrivere un articolo su Tommaso Landolfi (1908-1979) - al quale è dedicato il parco letterario di Pico, sua terra natia - è anzitutto un'occasione per porgere tributo a uno scrittore che amo moltissimo. Poco noto al grande pubblico, Landolfi resta in realtà una delle penne più raffinate e sublimi della letteratura europea del Novecento. Fu perlopiù autore di racconti fantastici, contrassegnati da una pungente vena dissacrante sia nei confronti dei costumi tradizionali italiani che della moderna società di massa.
Meritevole di attenzione è lo spassoso e oltraggioso Le due
zitelle. Landolfi lo ha sempre considerato il suo miglior racconto,
e Montale lo definì uno dei "maggiori incubi psicologici e morali
della moderna letteratura europea".
Di non minore importanza è il romanzo La pietra lunare dove,
"in una scena di provincia", il protagonista si innamora di Gurù,
fanciulla capra che condurrà il giovane Giovancarlo fra "lunari
orrori" di creature fantomatiche e sinistre lungo un itinerario
onirico che intreccia commedia, patos e sogno.
Nel 1975, dopo una intensa carriera che lo vede scrittore a tutto
tondo - romanziere, poeta, narratore, collaboratore con rubriche
letterarie ecc. - viene insignito del Premio Strega per la raccolta di
racconti A caso.
Per intenditori, invece, è la raccolta intitolata Se non la realtà.
Apparsi per lo più sulla rivista "Mondo" tra il 1952 e il 1959,
questi appunti di viaggi furono editi in un volume da Vallecchi
nel 1960. Non è il solito Landolfi, immaginifico ideatore di
improbabili scenari di provincia; qui lo vediamo vestire i panni
del polemista, intento a trasfigurare nella sua sontuosa lingua reali
situazioni di vita quotidiana. Ne viene fuori quasi il diario intimo
e caricaturale delle peregrinazioni di un viaggiatore ironico e
divertito, il quale offre al lettore uno spaccato sull'Italia degli anni
Cinquanta in rapida ascesa del boom economico.
Per ogni città viene tratteggiata una galleria di personaggi
grotteschi descritti così minutamente da rasentarne il ridicolo.
Così in una corriera diretta a Frosinone - l'autore precisa è solito
viaggiare coi mezzi pubblici - incontriamo mangiatori di aranci
che "imprendono la loro appiccicosa bisogna sputando semidappertutto; ed ecco che il primo bambino, sgranando gli occhi e
diventando verde, principia a vomitare; s'intende tra le gambe dei
viaggiatori compassionanti, tosto imitato da qualche dama di
stinco peloso. Finché una ripicchiata professoressa di scuole
medie con servettina a lato non salti su a redarguire il personale e
le vomitanti stesse: ' Care mie, se vi fa male la macchina, perché
non prendete il treno?' (il vomito continua allora dal finestrino)".
Lungo i vagabondaggi attraverso la penisola, in Landolfi emerge la predilezione di paesi o luoghi apparentemente minori, provinciali, o comunque estranei ai grandi siti turistici: Frosinone appunto, la natia Pico, il paese di Ninfa, Itri, Formia ecc.; seppure troviamo pagine dedicate a una insolita Venezia, a Padova, e il racconto di una gita al Casinò di Sanremo. Landolfi sembra spiegare umoristicamente la ragione di tale fuga: "se un gioco di treni vi mettesse nella condizione di dover scegliere, per passarvi la notte, tra le città di Rovigo e di Ferrara, voi quale scegliereste? Senza dubbio Ferrara? Questa è la principale ragione perché io ho scelto, qualche giorno fa, Rovigo".
Sarcastico e anticonformista, Landolfi descrive quel disagio
dell'individuo sommerso dalla folla nelle grandi città. Emerge la
nostalgia per un'Italia perduta e ormai anacronistica, la cui antica
bellezza sembra destinata al tramonto, soppiantata dal progresso
frenetico e, tra i suoi effetti visibili, dal turismo di massa che ne
corrompe l'inveterato splendore. L'idea della "città vetrina" non
può che trovare Landolfi, intellettuale e fine umanista, contrariato
nonché disgustato; così la polemica segue più o meno
velatamente l'intera raccolta.
Se non la realtà è marcatamente segnato dalla polemica
antituristica di cui a fare le spese è appunto lo sprovveduto turista
italiano: "Maledetta la cultura popolare, la cultura turistica,
l'istruzione obbligatoria e quant'altre simili idee siano germogliate
nella mente dei demagoghi o dei cavalieri d'industria [...]"
afferma stizzito il Landolfi.
E ancora un estratto dal capitolo La gattina di Petrarca in cui
molti turisti sembrano ignorare addirittura l'identità del grande
poeta: "ad Arquà e alla casa del Petrarca salgono periodicamente
(mi informa la guardiana) mandrie di villeggianti et similia da
Abano o di chissà donde; e costoro guardano tutto, si informano è
facile immaginare di quali particolari, appongono la firma sulregistro e infine, al momento di uscire, pensano bene di
documentarsi sul Petrarca stesso chiedendo per esempio (scelgo a
caso tra le domande riferitemi dalla guardiana): ' ma che cosa era
poi il Petrarca, un cantante è vero?' (Perbacco, lo era.) No, non
dico che si debba sottoporre a un esame d'ammissione quanti
manifestino il proposito di visitare la casa del Petrarca o di
qualsivoglia grande poeta, ma che almeno ci si lasci andare
soltanto chi vuole, ed essa non sia compresa negli itinerari
turistici; che se c'è una genia perniciosa alla cultura vera e non
mai abbastanza ferocemente aborrita, è quella dei turisti".
Traspare la derisione amara che sottende all'esigenza di una
dimensione iniziatica e sacrale del viaggio, in queste pagine
accanite contro la realtà del degrado dei luoghi di culto dell'arte.
Non un discorso fuori luogo oggi, se osserviamo la mandria
ignara che ipocritamente si riversa nei musei con l'intento di
scattare un selfie davanti a un'opera del Rinascimento e
pubblicarla su instagram; o anche ciò che capita sovente a
monumenti imbrattati in tutte le città da Nord a Sud. Cosa ha a
che fare tutto ciò con l'arte e col raccoglimento? Ciò denota
piuttosto una mancanza di rispetto verso il patrimonio artistico.
L'effetto e, al contempo, il sintomo di tale altera ignoranza, è la
degenerazione della vera cultura in pubblicità e intrattenimento
per le masse. In questo senso, e non altrimenti, va inteso il rifiuto
di Landolfi per la "cultura popolare".
Non è mia intenzione dilungarmi troppo su una faccenda che, se
toccava Landolfi allora, ci riguarda adesso più profondamente.
Dovremmo (ed è un dovere del tutto estetico quali eredi di un
popolo proverbialmente dotati di gusto e senso del bello)
distinguere nettamente il "viaggetto turistico" e il viaggio inteso
come forma di arricchimento intellettuale, al quale si è spinti da
una sorta di sete di conoscenza, e non dall'ennesimo tic di mania
consumistica. Come per quel tour europeo, il quale si svolgeva
soprattutto in Italia, in cui consisteva la formazione di ogni
giovane aristocratico solo un paio di secoli fa, così dovremmo
riscoprire il viaggio come forma di conoscenza diretta. Almeno se
non vogliamo togliere ulteriormente terreno alle nostre radici -
italiane e quindi europee - e preservare quanto di bello e sublime
possediamo in misura maggiore di ogni altro paese, a livello
paesaggistico quanto culturale. E' questa la nostra unicaricchezza, ciò a cui dovremmo educare e sotto il cui segno essere
educati.
Come in Viaggio in Italia Ceronetti lamentava il disastro
dell'"antica bellezza perduta", Landolfi riconosce l'abbrutimento
che un certo progresso cieco e disperato porta ai danni del
territorio, di cui non rimangono che frammenti, luoghi-vetrina,
retorica di squallida propaganda esposta da istrionici politici e
amministratori. E pure la provincia - là dove Landolfi involava la
fuga - viene travolta da questa febbre che tende a
commercializzare ogni singolo metro quadro (materiale e
virtuale), fino a che ci troviamo totalmente sradicati, immersi in
un grande centro commerciale a vetrine luccicanti e stordenti,
infestato da aria condizionata per uno shopping più comodo e
divertente. Perciò, riscoprire i luoghi della cultura è essenziale! -
dacché essi offrono possibilità per riconoscere la nostra vitalità
sommersa.
Non trovo modo migliore di concludere l'articolo che lasciare la
parola a Landolfi: "quale viaggiatore ozioso (al pari di me) non si
è sentito battere furtivamente il cuore all'idea di passare una notte
in una tranquilla città di provincia che neppure gli avidi e
fastidiosi turisti frequentino? Non so: se ne ripromette, esso
cuore, come un ritorno alle origini, un riposo, una pace
sconosciuti alle grandi e famose città, e soprattutto la scoperta di
qualche modesto segreto dell'animo, dell'animo femminile per
esempio, che, non abbagliato o travestito da importuni splendori,
serbi intatta la propria inebriante desolazione e quasi
amorosamente la custodisca; poiché non è dubbio, generalmente
parlando, che dove sia meno luce più chiaramente segnato è il
destino dell'uomo"
Gennaro Cardenio
Immagine di copertina. Pico (Fr) foto Franco Carnevale
...“Occorre che vi rifacciate” prese allora a dire l’amico “al fondo d’una delle nostre province”. E non già a una piccola città malinconica (…) immaginate piuttosto un minuscolo paese, un borgo sperduto tra le montagne. Al tempo della mia storia io vivevo laggiù, e del resto (aggiunse sorridendo) è là che sono nato. (…)