Nel dibattito ricco e
vivace, che si è aperto in varie sedi per la ricorrenza del 120° anniversario
della nascita di Carlo Levi, ha trovato spazio anche qualche intervento
apertamente polemico nei confronti dell'intellettuale torinese e della sua
opera letteraria e pittorica. Il fatto non può meravigliare più di tanto,
perché l'antilevismo, inteso come opposizione all'ideologia che sorregge
l'opera leviana, in particolare alla rappresentazione del Mezzogiorno e alle
riflessioni proposte sulla questione meridionale nel suo celeberrimo “Cristo
si è fermato a Eboli”, non è un fenomeno recente. Nato subito dopo la
pubblicazione del libro nel 1945, si diffuse già negli anni Cinquanta, perché
il pensiero di Levi, come ha rilevato Giovanni Russo, «ha odore di zolfo non solo per gli
intellettuali crociani, illuministi e riformisti, che si ispirano alla
tradizione del “meridionalismo storico” […], ma anche per gli intellettuali
comunisti».[i]
Non è azzardato dire che
le polemiche siano sorte quasi in contemporanea con la pubblicazione del “Cristo”,
che diventò subito un “caso” letterario. In una recente e preziosa nota [ii]
Antonio Martino, che a Tricarico fu testimone oculare di un episodio che si
ricorderà tra poco, asserisce in termini solo in apparenza paradossali che
l'antilevismo è addirittura antecedente al levismo.
Prima di indagare, però,
le ragioni di tale ostilità verso lo scrittore e artista torinese, con il
supporto di qualche significativo dato statistico è opportuno ricordare in via
preliminare le dimensioni dell'immediato e stupefacente successo di un'opera
che risultò subito affascinante per la sua indiscutibile originalità.
Caratterizzato da una conformazione polimorfa, che si potrebbe definire
prismatica per le sue molte sfaccettature, il “Cristo” di Carlo Levi
sfuggiva a ogni sorta di catalogazione e non poteva essere rinchiuso in nessuna
formula definitoria. Non era, infatti, specificamente un diario, ma neppure
un'autobiografia, un romanzo, un saggio, un reportage. Esso, però, mostrava di
contenere armoniosamente i segni e i tratti di questi diversi generi letterari
e si connotava anche come una raffinata opera poetica in prosa, che, ispirata
da un forte impegno civile, diventava lo strumento di una coraggiosa denuncia
sociale e politica.
Tutto ciò spiega alcune
delle ragioni dello strepitoso successo del libro, testimoniato dalle nove
edizioni nell'anno della sua pubblicazione, e dal fatto che ben presto la sua
fama varcò i confini nazionali, grazie alla prima traduzione in inglese, che
nel 1947 lo fece approdare negli Stati Uniti d'America. Da allora “Cristo si
è fermato a Eboli” è stato tradotto in una quarantina di lingue, che lo
hanno fatto conoscere praticamente in ogni angolo del mondo. L'ultima traduzione,
la seconda in lingua giapponese dopo quella del 1950, risale al 2016 e l'ha
realizzata la giovane docente universitaria Yuko Nishimaki dopo numerosi viaggi
effettuati ad Aliano per conoscere da vicino, per quanto possibile, luoghi e
persone che avevano ispirato il memoriale leviano.
Alla luce di questi dati,
scarni ma significativi, sembra assurdo che sia potuto sorgere un fenomeno non
consistente ma persistente di antilevismo, che ancora oggi di tanto in tanto
riaffiora in superficie come l'acqua di un fiume carsico. È opportuno, perciò, considerare e
spiegare i motivi per cui già al primo apparire del libro divamparono da più
parti furiose polemiche, che furono evidentemente alimentate da motivazioni
molto eterogenee.
Innanzi tutto, come si
accennava all'inizio, reazioni violente si ebbero sul versante della critica,
in particolare di quella militante di sinistra. Ad esse si aggiunsero quelle di
non pochi esponenti della borghesia meridionale, in special modo lucana, che
era stata descritta come una componente parassitaria e avida del corpo sociale.
A tali contestazioni si accompagnarono, infine, il risentimento e l'astio di
quelle persone che si riconobbero nei personaggi del “Cristo” e mal
tollerarono di essere state dipinte in chiave fortemente negativa.
I giudizi contrari di
molta critica, spesso talmente aspri da configurare una vera e propria
stroncatura, vertevano essenzialmente sul fatto che nel libro di Carlo Levi
risultava inattendibile la rappresentazione del mondo contadino come di un'entità estranea al corso della Storia e immersa in
un magma di leggende e di superstizioni. Di quel mondo, inoltre, lo scrittore
avrebbe mitizzato in forma acritica e populista segni e valori, manifestando
verso i contadini sentimenti di pietà, compassione e solidarietà con un
evidente atteggiamento paternalistico.
L'autore del “Cristo”
fu inoltre tacciato di narcisismo, perché aveva posto se stesso al centro della
narrazione e, aveva notato Alberto Asor Rosa, nel romanzo si era rappresentato «come una specie di Giove buono e
sereno, un affettuoso e dolcissimo sovrano in esilio, circondato di questi
nuovi esotici sudditi»[iii].
A
tale proposito lo stesso Carlo Muscetta, che pure aveva caldeggiato l'uscita
dell'opera presso Einaudi, affermava che «Levi è un artista, anche se troppo
spesso per il gusto baudelairiano della mistificazione si compiace di
travestirsi da Dio terrestre. Spogliato della sua aureola mitologica, della sua
felicità fittizia, è uno del vecchio mondo che va mendicando, con fierezza e
con dignitosa elegia, un po' di umanità».[iv] E sempre
Muscetta confidava che non aveva mancato di dire in maniera seriosa in presenza
dello stesso autore: «Se Cristo non è giunto ancora a redimere le desolate
plaghe della Lucania, […]
la discesa di Carlo Levi, pittore e medico, stregone e scrittore è rappresentata nel suo stesso libro come una
vera Epifania, come l'avvento e la rivelazione di una divinità da adorare»[v].
Riguardo
ai rilievi mossi al “Cristo” leviano vale la pena di ricordare anche ciò
che ha scritto in un recente articolo Giovanni Caserta. Il noto critico
materano, che sull'opera letteraria di Carlo Levi ha scritto molte e
illuminanti pagine, non ha difficoltà ad ammettere che «Alcuni “compagni” comunisti di quegli
anni, vedi Alicata e in parte anche Muscetta e Asor Rosa, si risentirono
perché, secondo loro, Carlo Levi avrebbe visto la salvezza della Lucania nella
immutabilità della condizione contadina, cioè nell’isolamento, quasi che
intorno alla regione egli volesse erigere una barriera da riserva indiana, che
ne avrebbe impedito qualunque contaminazione»[vi].
Congruenti, d'altro
canto, risultano le riflessioni critiche di Giorgio Bassani, che tramite Manlio
Cancogni aveva incrociato Carlo Levi a Firenze, dove dopo l'8 settembre
entrambi vivevano in clandestinità, mentre la città era occupata dai Tedeschi.
Di Bassani, che abitava nei pressi di Santa Maria Novella con la moglie Valeria
Sinigallia, sposata in estate prima di fuggire via da Ferrara, Carlo Levi ebbe
anche modo di leggere allora il racconto breve “Storia di Debora”, che
nel 1956 sarà inserito nella raccolta “Cinque storie ferraresi”. Erano i
terribili «dì della sventura», come cantò il poeta
Umberto Saba, «… e Firenze / taceva, assorta nelle
sue rovine».[vii]
Non meraviglia, perciò,
che l'autore del famoso romanzo di formazione “Il giardino dei Finzi-Contini”
si sia poi occupato di Carlo Levi, salito prepotentemente alla ribalta della
scena letteraria nazionale subito dopo la fine della guerra. Bassani ne scrisse
nell'agosto 1950 in una recensione del “Cristo si è fermato a Eboli” e
di “Paura della libertà” intitolata “Levi e la crisi”. Nel testo,
che con il titolo “Carlo Levi e la crisi” sarà riproposto a distanza di
anni in importanti saggi e raccolte come “Le parole preparate” e “Di
là dal cuore”, Bassani sapientemente disegna un ritratto della complessa
personalità umana ed artistica dello scrittore e pittore torinese. Egli
sottolinea innanzi tutto la sua stupefacente versatilità, che non ha nulla di
dilettantesco ed è tanto più ammirevole se la si paragona all'attività “di
gracili quanto severi specialisti”.
L'eclettismo di Levi -
nota opportunamente Bassani - è tale che nessuna sua opera risulta irrelata dal
contesto ed è per questo che, ad esempio, un suo dipinto può essere pienamente
inteso e apprezzato solo nel caso in cui se ne colgano anche i valori
letterari, filosofici e poetici. Una lettura del “Cristo”, non disgiunta
dal saggio “Paura della libertà”, aiuta pertanto a rilevarne i
significati profondi e i pregi indiscutibili, ma è utile a far capire che il
suo immenso successo fu dovuto anche a un equivoco di fondo, che ne condizionò
l'analisi e la valutazione[viii].
Lo scrittore ferrarese,
infatti, aggiunge che molti critici, al pari di tanti lettori comuni, nel libro
di Levi «videro fin dal principio la Lucania e
basta».
In realtà, quello documentario è solo un aspetto secondario e diventa il
pretesto di una narrazione, che vede protagonista lo stesso autore. Dominante,
infatti, è la figura esemplare di “don Carlo”, «in cui lo scrittore non si stanca mai
di specchiarsi […] e nella quale si concentra la più forte carica
ideologica del libro»[ix].
Bassani
non mancò di rievocare il “Cristo si è fermato a Eboli” anche in un
convegno sul risanamento dei Sassi, che si tenne a Matera il 10 dicembre 1967 e
al quale partecipò come Fondatore e Presidente dell'Associazione “Italia
Nostra”. In quella occasione rimarcò l'inattualità della rappresentazione
elegiaca che del mondo contadino aveva dato nel suo famosissimo libro Carlo
Levi, che ora, come senatore, era pur egli impegnato nell'ideazione di un
progetto di recupero, di salvaguardia e di valorizzazione della funzione
urbanistica dell'antico agglomerato materano.
Di
tutt'altro genere fu la contestazione dello scrittore torinese da parte della
gente comune. Gli abitanti di Aliano, in particolare, si sentivano fortemente
denigrati da Levi, che accusavano di avere travisato i fatti e dato una
rappresentazione falsa e spesso caricaturale di molti di loro. Tali accuse
vennero lanciate non solo dalle persone direttamente chiamate in causa, come il
podestà Luigi Magalone, la potente sorella donna Caterina, i due dottori
Milillo e Gibilisco, Giulia la Santarcangelese, o dai loro parenti, ma
addirittura da alcuni di quegli stessi contadini che, umiliati e offesi dai
“galantuomini”, avevano ricevuto attenzione e solidarietà dallo scrittore, che
in loro era giunto perfino a identificarsi.
Ciò
non può stupire, perché, quando queste accuse furono rivolte a Levi anche in
forma aggressiva in occasione del suo primo ritorno in Lucania nel 1946, ben
pochi avevano letto il “Cristo” e moltissimi contadini ripetevano solo
ciò che era stato riferito dai pochi “luigini”, che il libro lo conoscevano e
se ne sentivano infamati. Con quei signori del Sud, sopratutto con gli agrari,
Carlo Levi non era stato certamente tenero neppure quando, il 6 novembre, aveva
scritto sul giornale del Partito d'Azione, di cui solo due giorni prima aveva
assunto la direzione. Tra l'altro aveva affermato che essi erano i malefici e
detestabili rappresentanti di «un mondo ottuso e
miserabile, che si nutre di noie, di astio, di piccinerie e del sangue dei
contadini, che devono lavorare per loro portare i tributi e gli ossequi, e
morire di stenti e di miseria»[x].
È
emblematico, comunque, quello che accadde a Tricarico nel 1946, quando Carlo
Levi tornò in Lucania per la campagna elettorale, essendo candidato alla
Costituente per la XXVI Circoscrizione di Potenza-Matera nel “Movimento
democratico repubblicano” insieme con Guido Dorso, Tommaso Fiore, Manlio Rossi
Doria e Michele Cifarelli. L'episodio è stato così descritto in un sapido articolo da Antonio Martino,
prezioso scrigno della memoria storica lucana e testimone oculare dei fatti: «Levi
doveva tenere il suo comizio dal balcone dell’albergo Cutolo ed era
accompagnato da Giovannino Russo e Leonardo Sacco. Levi iniziò il suo comizio sul balcone di
Cutolo, ma una forte contestazione di fischi e parolacce, accusandolo di averci
diffamati col suo libro, gli impediva di parlare. Intervenne Rocco Scotellaro
come una furia, saltando da un lato all’altro del balcone, scolpendo in due
parole l’essenza della testimonianza di Levi. Impose il silenzio e Levi parlò»[xi].
Fu
in quella occasione che si conobbero Carlo Levi e Rocco Mazzarone.
Quest'ultimo, come amava raccontare egli stesso con garbata autoironia, si
presentò come un “medicaciucci, nipote di don Trajella” e Carlo Levi
prontamente rispose con altrettanta raffinata ironia: «Allora
siamo colleghi!». Così, in modo del
tutto irrituale, nacque tra don Rocco e don Carlo una solida amicizia che,
fondata su una reciproca stima, sarebbe durata per sempre.
A
Levi non fu neppure risparmiata l'accusa di aver costruito il suo notevole
successo, anche economico, parlando male di Aliano e del Sud nel libro in cui
aveva raccontato l'esperienza del suo confino, mistificando peraltro la realtà.
L'accusa, tanto rozza e spregiudicata quanto insulsa e meschina, fu poi
avallata a distanza di tempo da qualcuno che, pur considerandosi un epigono
dell'illustre confinato piemontese e religioso custode della sua memoria, non
si tratteneva dal proclamare perfino in pubblici convegni: «Carlo
Levi ha strumentalizzato Aliano e ora è bene che gli alianesi fanno lo stesso,
servendosi del suo nome a loro vantaggio».
Il
giornalista e scrittore Andrea Di Consoli opportunamente nota che questa forma
di levismo, per la quale «il passato
è diventato oleografia, bozzettismo, storytelling e marketing»,[xii] è
deleteria e fa male a Levi almeno quanto l'antilevismo ottuso e preconcetto.
Insomma, la meschinità di certi discorsi, scivolosi anche sul piano
grammaticale, non è meno avvilente della pretenziosità delle critiche, spesso
livorose, mosse da qualche scrittore o artista autoreferenziale, che si
compiace di indossare la casacca dell'antilevismo, menando pure vanto di non
avere mai letto il libro contestato.
Nel
suo primo ritorno in Lucania, dunque, Levi ad Aliano, il paese che fra il 1926
e il 1943 aveva ospitato ben 41 confinati,[xiii] non fu
accolto più benevolmente che a Tricarico o a Grassano. Anzi, non furono pochi
coloro che si rifiutarono persino di salutarlo. Tra gli altri Giulia, la fedele
domestica ritratta nel “Cristo” come una donna dotata di “una specie
di barbara e solenne bellezza”. Ella era fortemente e comprensibilmente
risentita, perché nel libro le erano state attribuite una relazione con il
prete predecessore di don Trajella e ben “diciassette gravidanze, da
quindici padri diversi”. Molte altre erano le famiglie, tra le quali
evidentemente non potevano mancare quelle di don Luigino e della sorella donna
Caterina, che per ragioni diverse si sentivano offese ed erano perciò
fortemente indignate per quanto era stato scritto su di loro.
A
tale proposito sempre Antonio Martino ricorda che ad Amalfi dopo la guerra,
negli anni liceali, ebbe compagni due ragazzi di Aliano, i quali avevano
conosciuto Levi quando scontava la pena del confino. Uno di loro era Domenico
Guarini, nipote del podestà di Aliano in quanto figlio della sua potente
sorella. «Eravamo sotto esami -
racconta Martino - quando venne a trovarmi in convitto Rocco Scotellaro. Il
nipote di don Luigi mi voleva sbranare. Dopo Levi quel Senzadio di Rocco
Scotellaro, mi rinfacciava, era il peggiore nemico della Lucania. Diceva anche
che lo zio avesse scritto un libro intitolato “Un cretino si è fermato ad Aliano”. Di questo libro non
si è mai saputo nulla, se fu scritto davvero o no. Forse fu scritto, perché il
nipote mostrava di saperne molto a memoria»[xiv].
Molti
anni dopo lo stesso Domenico Guarini ha rilasciato ad Antonio Pagnotta e
Graziella Salvatore, autori di un pregevole e prezioso volume fotografico, una
testimonianza di tutt'altro tenore, di cui si riporta uno stralcio: «Quando
“Cristo” è stato pubblicato, ho spiegato ai miei genitori che Levi aveva
colorato i personaggi e li aveva collocati per fare, della sua vita di confino,
un libro per andare oltre la semplice biografia. Ho avuto una grande amicizia
con Carlo Levi; nel 1960 mi invitò a Roma dove prenotò, per me, una camera
nell'albergo Hilton per quattro giorni. Nel 1974, quando tornò ad Aliano
incontrò mia madre con grande emozione»[xv].
Non sfugge il forte stridore tra le due versioni di Martino
e di Guarini, ma, dovendo ritenere entrambi i testimoni fededegni, non è
azzardato arguire che il Tempo è davvero un grande medico, che con il suo
trascorrere inesorabile si rivela capace di cicatrizzare molte e gravi ferite.
Tale
ipotesi sembra essere avvalorata dalla significativa testimonianza di un'altra
persona autorevole, vale a dire Eduardo Scardaccione. Nipote del dottor
Concetto Gibilisco, di cui aveva ereditato il nome reale, seppe subito che il
nonno era stato raffigurato nel “Cristo” in modo pesantemente
caricaturale e che gli era stata da Levi ingiustamente assegnata la sgradevole
patente di “medicaciucci”. Oggi il più giovane Eduardo, giudice della Corte
Costituzionale di Roma, a proposito del famosissima libro leviano con serena
lucidità osserva: «La prima generazione
l'ha completamente rifiutato, la seconda era ancora ferita, la terza ha
accettato l'opera come un capolavoro di scrittura».
E sulla scorta della sua esperienza personale aggiunge con estrema franchezza: «A
casa mia Carlo Levi era considerato un traditore, era proibito parlare di lui.
Era entrato nelle case e aveva raccontato tutte le cose, per altro vere. Ho
letto il libro per primo, anche gli altri l'avevano letto, ma di nascosto, era
proibito ammetterlo».[xvi]
Tanti, insomma, seppure
molto tardi hanno capito che il libro di Levi era stato scritto non contro ma
per Aliano, la Lucania, il Sud. Il Tempo, dunque, che sempre opera
assiduamente, non ha agito solo sulla vita delle singole persone, cambiando la
disposizione d'animo nei confronti di Carlo Levi e della sua opera, ma è
intervenuto in un ambito più vasto, facendo registrare mutamenti radicali nelle
comunità del Sud, dell’Italia, del mondo. Va detto, però, che nel processo di
tali trasformazioni la Storia ha seguito traiettorie diverse da quelle
immaginate o vagheggiate dallo scrittore torinese.
Per questo, come Levi
stesso aveva in parte presagito, il riscatto e l'emancipazione del Mezzogiorno
non si realizzarono dopo la fine del mondo contadino, anche perché con esso
scomparvero i suoi antichi e solidi valori di riferimento. Anzi, in
Lucania-Basilicata in seguito al dissolvimento della cultura contadina e al
fallimento del progetto di industrializzazione le condizioni sociali ed
economiche finirono per aggravarsi. Ed è per questo che oggi si assiste
impotenti a un processo spaventoso e inarrestabile di catastrofe demografica e
di desertificazione del territorio, che per certi versi è una iattura ancora
più grave della malaria, del tracoma, della miseria che ai tempi di Levi
imperversavano in tutti i paesi lucani.
Neppure a livello
nazionale si è attuato il rinnovamento politico che Levi aveva affidato alla
sua visione utopica di una democrazia dal basso, che prevedeva la nascita di
comuni rurali autonomi inseriti in una organica federazione e di cui dovevano
essere protagonisti i contadini. Presto bisognò anche prendere atto che era
rapidamente evaporato il nuovo spirito etico e civile, che sembrava fosse nato
dall’epopea della Resistenza.
Svanì, infine, il sogno
di una palingenesi sociale, etica e politica che Levi aveva auspicato avvenisse
alla luce del radioso “sol dell'avvenire” socialista sotto la guida di quella
Unione Socialista Sovietica, che aveva insinuato nel suo animo il sentimento
che “il futuro ha un cuore antico”. Anche l’idea che potesse nascere nel
mondo occidentale una società più libera, più giusta e più autenticamente
democratica di quella dominata dall’aberrante logica mercantile di un liberismo
economico sfrenato finì, dunque, per rivelarsi irrealizzabile.
Ora non si fa certo
fatica a riconoscere la fragilità di alcune valutazioni politiche di Carlo Levi
e di alcune sue riflessioni critiche sull'annosa questione meridionale. Ciò,
comunque, non inficia minimamente il senso e il valore del suo coraggioso,
coerente e concreto impegno civile dispiegato a favore del Sud e per
l'affermazione di alcuni irrinunciabili valori esistenziali.
Appare altrettanto scontato
che lo scenario sociale, economico e culturale di Aliano e del Mezzogiorno è
radicalmente diverso rispetto a quello rappresentato in “Cristo si è fermato
a Eboli”. Eppure, non ostante tutto, è innegabile che quest'opera circa
ottant'anni dopo la sua pubblicazione mantiene una sorprendente carica di
attualità e conserva intatto tutto il suo fascino. Le ragioni evidentemente
risiedono nel suo intrinseco valore letterario scaturente dalla capacità
dell'autore di universalizzare il particolare, rendendo la Lucania il simbolo
universale di tante “Lucanie sparse nel mondo” e scoprendo che la “Lucania
è in ognuno di noi”. Nelle due meravigliose metafore è racchiusa l'essenza
del messaggio che Carlo Levi ha voluto affidarci come scrittore, pittore, uomo
politico impegnato con coerenza e coraggio per tutta la vita a realizzare una
società più libera e più giusta.
Immagini a cura di Angelo Colangelo
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Sono arrivato a Gagliano un pomeriggio di agosto, portato in una piccola automobile sgangherata. Avevo le mani impedite, ed ero accompagnato da due robusti rappresentanti dello Stato, dalle bande rosse ai pantoloni e dalle facce inespressive. ...
dal Cristo si è Fermato ad Eboli