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Proust e Pasolini: due uomini appassionati del linguaggio

19 Gennaio 2022
Proust e Pasolini: due uomini appassionati del linguaggio
L’anno 2022 segna due centenari importanti per la cultura europea: la nascita di Pier Paolo Pasolini a Bologna il 5 marzo 1922 e la morte di Marcel Proust a Parigi il 18 novembre 1922
 I bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera.
 — Marcel Proust 
 Il dialetto diventa lingua, quando viene scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti del cuore…per esprimere le proprie idee, il proprio sentire, i propri desideri. 
— Pier Paolo Pasolini 

 L’anno 2022 segna due centenari importanti per la cultura europea: la nascita di Pier Paolo Pasolini a Bologna il 5 marzo 1922 e la morte di Marcel Proust a Parigi il 18 novembre 1922.

 A prima vista, Pasolini, il regista, autore, poeta e drammaturgo italiano, che si è anche ritagliato un posto nell'Italia del secondo dopoguerra come scomodo intellettuale, e Proust, il romanziere, critico e saggista francese che ha scritto il monumentale romanzo Alla ricerca del tempo perduto, sembrano compagni improbabili. Dopo tutto, hanno parlato a pubblici diametralmente opposti e hanno incarnato contesti politici e sociali diversi tout court. Eppure, a un esame più attento, ciò che li unisce è più grande di ciò che li divide, per citare un vecchio adagio, e questo è particolarmente vero quando osserviamo la loro reciproca ossessione per il linguaggio.

 Entrambi erano affascinati dall'estetica della lingua e soprattutto avevano capito che essa è intimamente legata alle persone e alla società. Nei sette volumi della sua ultima opera, Alla ricerca del tempo perduto, Proust sembra ossessionato da come si esprimono le persone. Non è una coincidenza che Marcel, il narratore, analizzi ciò che può essere determinato sulla personalità o sull'identità sociale di qualcuno dalla sua proprietà di linguaggio e il più delle volte dedichi molto più spazio all’analisi del modo in cui le persone parlano piuttosto che al contenuto dei loro discorsi. Scopriamo, mentre sfogliamo le pagine, che tutti i personaggi de La Recherche hanno stili espressivi peculiari e il modo in cui discorrono è così strettamente associato alla loro identità da diventare una promessa seducente e una strategia di potere per quelli con aspirazioni sociali, come se chi avesse adottato i modi di quel certo abile oratore avrebbe potuto beneficiare dei suoi stessi privilegi.
Quasi tutti i personaggi di Proust, per tentativi ed errori, esplorano questa prospettiva. Cambiano il modo di parlare sperando di diventare più simili a coloro a cui vogliono assomigliare. Infatti, i personaggi percepiti con una buona dialettica godono di una mobilità sociale verso l'alto, mentre chi non sa parlare bene non riesce a mantenere o migliorare il suo status sociale.

 Pasolini che ha intrapreso le sue attività letterarie e cinematografiche nell'atmosfera dell'Italia del secondo dopoguerra, a differenza di Proust, è stato più influenzato dall'ideologia che dallo status sociale.
In particolare il pensiero di Antonio Gramsci ha avuto un grosso impatto sulle teorie pasoliniane riguardati temi come l’egemonia e il capitalismo, ciò che lui ha definito dagli anni sessanta in poi il “genocidio culturale” effetto dell’irrefrenabile consumismo. Qui Proust e Pasolini divergono radicalmente. Lo status sociale ha un'importanza maggiore nel mondo di Proust perché la società che egli frequenta è più strutturata su come si appare e da chi si frequenta invece del lavoro che si svolge. Sebbene la classe - professione, ricchezza e background sociale - influenza il modo in cui il suo narratore percepisce coloro di cui parla, non è l'unico fattore che ne determina il successo sociale, che dipende anche da caratteristiche come l’abilità oratoria, il fascino e il tatto.

 Ironicamente, Pasolini, l'uomo, il suo pensiero e la sua eredità incarnano ciò che il narratore di Proust conclude sulla definizione degli altri attraverso l’interpretazione di fattori esterni come l'abbigliamento (Pier Paolo usava indossare maglioni a collo alto e occhiali da sole scuri), i manierismi (la parlantina veloce e nevrotica), l'aspetto (il volto scolpito) e soprattutto il linguaggio, che funzionano tutti insieme su un distinto livello socio-semiotico del linguaggio che comunica non un significato semantico ma una personalità.

 E qual era quella di Pasolini, che continua ancora oggi non solo a incuriosire, ma anche ad attirare l'interesse di molti? Direi che, in quanto osservatore anticonformista dei cambiamenti che stavano avvenendo in Italia all’epoca, egli da una parte incarnava una malinconica devozione al passato ma dall’altra, pur conscio dei pericoli e dell’ambiguità della sfida della modernità, ne fu il più brillante interprete. In una poesia che l’attore e regista americano Orson Welles recita nel cortometraggio di Pasolini La Ricotta (1963), questo è illustrato in modo chiaro: lì il regista italiano si definisce come "una forza del passato" che paradossalmente si vede anche come “più moderno di tutti i moderni”.

 Come si riflette nella poesia sopra citata, Pasolini arrivò a credere nei primi anni Sessanta di essere sopravvissuto a un mondo ideologico e culturale che non esisteva più perché le ricche e diverse culture tradizionali italiane sembravano sempre più destinate alla distruzione da parte di un nuovo Potere, cioè l'impero delle merci e dei consumi, che stava conformando tutti agli stessi standard mortificanti: niente più culture diverse a cui appartenere e niente più ragioni per l'uso dei dialetti che molti non conoscevano nemmeno più, mentre si radicava una nuova lingua italiana standard. Nel suo famoso saggio Nuove Questioni Linguistiche (1964) Pasolini non solo lamentava la scomparsa dei dialetti, ma osservava anche come la popolazione italiana stava gradualmente "perdendo il suo ingegno linguistico", trasformandosi in "una lingua così povera da rasentare una vera e propria afasia" o, al contrario, in un "discorso senza senso fatto solo di chiacchiere vuote e bugie, privo di qualsiasi contenuto reale". Qui l'intuizione di Pasolini sembra quasi profetica. Oggi, basta dare un’occhiata ad un quotidiano italiano o ad un po’ della sua televisione per cogliere l'attualità della sua prolifica comprensione del mondo - e pensare che questo era prima dell'avvento dei social media - insomma, un mondo in cui un esteta con la passione per lo studio del linguaggio e della sua espressione che ritiene centro vitale dell'esistenza personale e sociale, si sente sempre più naufrago o, peggio ancora, alienato.
Eppure Pasolini, nel ruolo di un linguista sui generis, che ha fatto del linguaggio il motore della sua intera esperienza artistica e personale, offre conforto. Sempre fedele all'ideale della lingua come "spia dello spirito", ci ricorda che è un'impresa fondamentale che vale ancora la pena di perseguire perché è la manifestazione più autentica dell'essere umano.

 Prima di concludere, vorrei aggiungere brevemente qualche parola su come i dialetti sono stati percepiti da Proust e Pasolini. Nei primi decenni del ventesimo secolo, l’abbandono quotidiano dei vernacoli rurali in favore delle lingue nazionali come il francese e l’italiano ha trasformato queste lingue minori in oggetti di intensi desideri e proiezioni per molti scrittori come Thomas Mann e James Joyce. E questo era vero sia per Proust che per Pasolini. In Alla ricerca del tempo perduto, il narratore di Proust vede il patois francese come una delle miracolose porte d'accesso a una realtà immune dalle devastazioni del tempo e usa il personaggio di Françoise, suo servo e cuoco, come custode di una lingua e simbolo della storia della Francia. Lei è, come la chiama Marcel, la “génie linguistique à l'état vivant” [genio linguistico vivente] la cui purezza tiene a bada tutta la sua modernità. Pasolini, come già detto, lamentava disperatamente la rovina dei dialetti italiani ed era un critico feroce dell'italiano contemporaneo. Questo è forse il motivo per cui scelse di scrivere la sua prima raccolta di poesie, che debuttò nel 1942, in dialetto friulano e successivamente utilizzò un linguaggio tra gergo e dialetto romanesco per raccontare la vita delle borgate nei suoi romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), così come nei suoi film Accattone (1961) Mamma Roma (1962) e La ricotta (1963). Egli rimodellò questi dialetti per usarli come idiomi privati della poesia e come modo di rappresentare la realtà, che per Pasolini poteva essere espressa solo linguisticamente. Questo forse spiega la sua proposta provocatoria, che ripeté spesso per poco più di un decennio prima della sua tragica dipartita nel 1975: "trasformare i dialetti in strumenti rivoluzionari, vere armi al servizio della lotta per la difesa dei particolarismi culturali". 

 Mentre sono seduta qui davanti allo schermo del computer, giungendo alle conclusioni di questa riflessione su Proust e Pasolini, una frase dello scrittore ceco Milan Kundera continua a rimbombare fragorosamente nella mia testa: "La lotta dell'uomo contro il potere è la lotta contro l'oblio". Quando il potere impoverisce il linguaggio, diminuiscono anche gli strumenti per interpretare la realtà, entrano in crisi la democrazia, la meritocrazia, la libertà di esercitare il proprio pensiero, non a caso temi di grande attualità. Entrambi gli autori presi in considerazione hanno rifiutato l'amnesia in modo inequivocabile e si sono sforzati attraverso il linguaggio di ritrarre l’esistenza nella sua ontologia.

 Proust, è vero, può sembrare noioso a volte: migliaia di pagine dedicate a descrizioni infinite. Eppure, attraverso il suo occhio critico di osservatore, capiamo che se davvero ci prendessimo il tempo di guardarci intorno attentamente, potremmo forse essere in grado di avere una visione lucida non solo sugli altri, ma soprattutto su noi stessi. Così come se ascoltassimo attentamente, diventeremmo capaci come Pasolini non solo di decifrare quando una lingua biforcuta cerca di ingannarci, ma anche di ribattere nel modo più puntuale possibile. Sebbene condividessero background e temperamenti diversi, Proust e Pasolini ci hanno dato gli strumenti per impegnarci onestamente con la realtà. Se Proust cerca un linguaggio "perfetto", un senso di appartenenza in cui tutti possiamo trovare rifugio, Pasolini invece ci sfida a usare il linguaggio per sostenere la libertà di pensiero. Da questo punta di vista è molto più contemporaneo del primo.

 Proust e Pasolini restano due riferimenti indispensabili per chi è ancora affascinato dal potere del linguaggio e questo anno, quello dei rispettivi centenari, è una grande occasione per tutti i nostalgici.

Riproduzione riservata © Copyright I Parchi Letterari

Immagine (SdM):
Marcel Proust di Jacques Émile Blanche (1892) , da Le monde de Marcel Proust, André Maurois, Hachette, 1960
Pier Paolo Pasolini di Mario Rosati, Omaggio a Pasolini, Artheka 32, Ostia, 2021


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Ostia (Roma)

“Che, se n’annamo a Ostia? Fece il Riccetto, “oggi sto ingranato”.
“Eh” fece spostando su e giù tutti gli ossacci della sua faccia Alvaro.
“C’avrai dupiotte, c’avrai...”
Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di Vita

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