Così José Saramago concludeva il suo discorso ufficiale in occasione del conferimento del
Nobel per la Letteratura 1998. Io avevo appena terminato la lettura del suo romanzo Tutti i nomi. Era l’incontro di due fatti straordinari, la lettura di quel libro in particolare e la vittoria assegnata al primo autore portoghese nella storia del premio. Una tale coincidenza orientò le mie scelte, continuai a leggere Saramago. Poi gli scrissi una lettera.
Non era una lettera convenzionale di ossequio, riguardava piuttosto il senso di alcuni suoi personaggi emblematici che si muovevano in una struttura narrativa per niente semplice, soprattutto per la forma e per l’uso molto personale della punteggiatura.
Il primo libro che lessi, Una terra chiamata Alentejo (Levantado do chão) non fu di agevole impatto: una storia amara di braccianti agricoli (la famiglia Mau-Tempo che già nel nome si portava la sua sciagura) ma di tale vigore che sembrava uscire dai solchi dell’aratro impressi su una terra iniziale, quella che Saramago conosceva più di tutte, l’Alentejo appunto, che fu per lui la terra dell’infanzia e delle insostituibili scoperte che la saggezza di un nonno analfabeta gli offriva nel raccontargli la vita e i sogni.
In quella lettera, inoltre, elogiavo la sua traduttrice italiana. Spesso non si pensa che parte del successo di un autore è anche merito dei traduttori, di chi trasporta il fraseggio di un testo nella lingua altrui. Sì, perché, come sostiene lo scrittore Fabio Stassi «i traduttori sono dei musicisti, come l’interprete che si accosta a uno spartito già scritto ma a cui manca lingua, timbro, intonazione e tocco».
Non ebbi alcuna risposta a quella missiva che mi sembrava così ben congegnata. Nel marzo del 2003 Saramago partecipò ad un Convegno presso l’Università di Roma Tre (dove poi gli è stata intitolata una cattedra). Andai anch’io. Lo avvicinai per dirgli naturalmente il mio piacere di incontrarlo ma soprattutto per consegnargli, nel dubbio che non gli fosse giunta, copia della mia lettera. Era alto e magro, la sua figura tendeva ad incurvarsi come il viso a scavarsi, lo sguardo traspariva malinconico dalle grandi lenti dei suoi occhiali. Non mi disse nulla, solo alla fine del mio discorsetto, che fu brevissimo data la fila di ammiratori in attesa, mormorò un grazie e mi firmò, con una calligrafia ariosa che mi sorprese da un uomo in apparenza così chiuso, il suo Ensaio sobre a Cegueira (Cecità) che avevo avuto la pretesa di leggere in lingua originale con grande difficoltà e che, in quell’occasione, avevo portato con me.
Ho continuato a leggere i suoi libri, sempre più stupita del suo orizzonte creativo che si era espanso fino ad impossessarsi di Ricardo Reis, eteronimo di Pessoa, per concludergli la vita in quel romanzo di grande spessore che è L’anno della morte di Ricardo Reis. L’anno è il 1936 e l’incipit del libro - memorabile - è già una premessa di morte, quasi che il personaggio, tornando in Portogallo per sbarcare a Lisbona da una nave scura che risaliva un fiume limaccioso di fango, vi fosse traghettato da Caronte stesso.
Saramago si era scelto un esilio nell’isola vulcanica di Lanzarote, attorniato da paesaggi lunari nei quali poteva affondare gli occhi e la mente, perché del paesaggio egli fece quasi una categoria dello spirito: «Quanto paesaggio, un uomo vi può girovagare tutta una vita e non trovarsi mai, se è nato smarrito» così si esprimeva rivolto alle immense pianure dell’Alentejo.
Ma perché mai gli scrissi? E poi, perché dovevo aspettarmi una risposta? In fondo, quella lettera era una riflessione, un soliloquio. Era soprattutto un plauso recondito alle mie scelte di lettrice, attirata fatalmente là dove «il personaggio fu maestro e l’autore il suo apprendista».
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