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Ernst Bernhard: Einzelgänger poliedrico, 'influencer' ante litteram. Un'istantanea

10 Febbraio 2021
Ernst Bernhard: Einzelgänger poliedrico, 'influencer' ante litteram. Un'istantanea
Ernst Bernhard introdusse la psicologia junghiana in Italia dandole un'impronta profondamente personale e contribuì in modo determinante alla sprovincializzazione del Paese. Oggi un ricco archivio è a disposizione degli studiosi.
 Ernst Bernhard: Einzelgänger poliedrico, 'influencer' ante litteram. Un'istantanea 

Noi siamo contemporaneamente spettatori e autori di questa divina commedia della realtà.
Ognuno recita una parte.
Vedo recitare nello stesso tempo gli altri e me stesso.
Io sono attore. Gioco un ruolo attivo… 
Raimon Panikkar, Saggezza stile di vita, Cultura della pace, 1993.

Entro in una specie di teatro, dove vengono distribuite le diverse parti. 
A me viene assegnata la parte che devo rappresentare,
di non rappresentare cioé nessuna parte. 
Ernst Bernhard, “Sogni fatti nel campo d'internamento e nei primi tempi della mia liberazione”, Mitobiografia
Adelphi, 1969 

Si provi a immaginare una croce attorniata dal circolo dello Zodiaco e dall'uroboros, il serpente che si ingoia la coda. Sul braccio verticale della croce vi è una colomba e, al centro, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco e di quello ebraico: leggendole cominciando dal Taw, in ambedue le direzioni si forma la parola “Tao”. Questa raffigurazione simbolica costituisce un mandala secondo la reinterpretazione dello psichiatra Carl Gustav Jung del termine sanscrito atto a designare un dispositivo di meditazione (“psicocosmogramma” lo definì Giuseppe Tucci) impiegato nella traduzione induista, buddista e nella liturgia tantrica. Il mandala appena descritto proviene non già da qualche ashram californiano degli anni Settanta, ma da un appartamento romano a pochi passi da Trinità dei Monti, arredato con semplicità “quasi monacale”, “tutto corridoi e piccole stanze”, e precisamente da uno studio alle cui pareti era appesa un'immagine della Sacra Sindone, mentre una statua del Buddha campeggiava sulla scrivania. A partire dagli anni Quaranta e sempre più nel dopoguerra frequentò tale studio una cerchia eterogenea e trasversale d'intellettuali, artisti e letterati, in un'epoca in cui andare in analisi appariva cosa elitaria e un po' stravagante, e le scoperte della psicologia del profondo suscitavano una certa qual diffidenza nella temperie culturale del Belpaese data l'influenza dalla Chiesa cattolica – la quale non vedeva di buon occhio quella sorta di 'confessione laica' inaugurata da Freud e sviluppata dai suoi vari continuatori ortodossi, eterodossi e 'selvaggi'. Sul campanello del civico 12 di via Gregoriana alla fine dello scorso secolo (e millennio) ancora si leggeva il nome di chi quell'alloggio all'ultimo piano abitò: quello dei coniugi Bernhard: ché Dora Friedländer, seconda moglie e compagna di vita di Ernst Bernhard, gli sopravvisse per oltre trent'anni (morì ultracentenaria nel 1998). Assieme a lei, il pioniere della psicologia analitica in Italia era giunto a Roma, esule dalla Germania nazista, nell’inverno del 1936.

  Ernst Bernhard era nato 40 anni prima a Berlino da una famiglia ebrea originaria dell’Ungheria; dopo aver servito durante la Grande guerra come volontario nella Sanità, studia medicina, milita in un gruppo sionista socialista, segue i corsi di Karl Jaspers e Martin Buber; fa visita a quest'ultimo e rimane segnato nel profondo dalla sua rivalutazione del chassidismo inteso come santificazione di ogni atto quotidiano nella consapevolezza che Dio non può che manifestarsi attraverso l'aiuto dell'uomo. Mentre esercita come pediatra, si appassiona alla psicanalisi e, dopo due analisi freudiane, scopre l'opera junghiana; è il 1931, l'anno seguente incontrerà Julius Spier, ‘psicochirologo’ e terapeuta atipico mirabilmente ritratto da Etty Hillesum nel suo Diario (Adelphi, 1985) il cui magistero Bernhard integrerà nella propria ortoprassi. Breve ma intenso fu il successivo lavoro psicologico con Jung a Zurigo, mentre l'esodo epocale dalla Germania proseguiva inesorabile, né il loro rapporto fu dei più idilliaci: questioni temperamentali e sensibilità per vari aspetti difformi verso il religioso tuttavia non intaccarono affatto l'alta stima di Bernhard (peraltro ricambiata) verso una guida insostituibile, “un Maestro – ricorda Silvia Rosselli – che lui combatteva, criticava, ma in fondo amava”. Maestri d'altronde lo furono entrambi, e senz'altro scomodi, come titolava un numero monografico della Rivista di Psicologia analitica a loro e Buber dedicato (Maestri scomodi: Ernst Bernhard, Buber e Jung, a cura di R. Mädera, Astrolabio 1996). Del pari titola Mario Ganz la sua tesi su Bernhard, consultabile in http://www.marioganz.com/attivita/ernst-bernhard-la-psicologia-analitica-approda-in-italia_15.html

 A lui Bernhard esprimeva la speranza, all’indomani dell'arrivo in Italia – una scelta “ex abrupto” a seguito del respingimento della richiesta d'asilo da parte del British Immigration Office non avendo lui celato, ma anzi posto in evidenza il suo interesse per la pratica chirologica e astrologica accanto a quella analitica – di essere finalmente approdato alla ‘Terra’. Terra che sentiva altra, quantomai distante dal suo background doppiamente ‘patriarcale’ – tedesco ed ebraico – e che avrebbe improntato la seconda parte della sua vita, che lo vide promotore della psicologia del profondo in Italia assieme a un altro pioniere straniero ossia Edoardo Weiss, l'ebreo triestino già allievo di Freud con cui strinse da subito un proficuo sodalizio, trovandosi con lui concorde sul fatto che “non si tratta – affermò nel 1937 – di dichiararsi appartenenti a una o a un’altra scuola, non si tratta di scegliere l’etichetta col nome adatto per la psicologia che si vuole studiare, ma soltanto di apprendere più verità psicologiche possibili, senza trascurare nessuna fonte.” Bernhard promosse dunque, in modo forse più libero e ardito di quanto sarebbe stato possibile altrove, la ‘propria’ psicologia analitica – che preferì nominare 'psicologia del processo di individuazione' – in una terra a suo parere dominata da una psicologia ‘materna’ per eccellenza e della quale amò luci e ombre, genio e nevrosi, chiaroscuri e stramberie (dato che in Italia, come scrisse Flaiano, “la linea più breve tra due punti è l'arabesco”). A tale peculiarità e a “come sia possibile” fare psicologia con gli italiani egli dedicò infatti l'unico saggio da lui pubblicato (su Tempo Presente nel 1961, poi incluso nella Mitobiografia): “Il complesso della Grande Madre”; suggerendo altresì a un suo allievo, Antonio Gambino, di svilupparne gli spunti – acuti quanto attuali – in un libro assai intrigante, che spazia dal Grand Tour alla Legge Basaglia e che lo scrittore e giornalista siciliano titolò Inventario italiano. Costumi e mentalità di un Paese materno (Einaudi 1996, da troppo tempo fuori commercio).

Ebreo non ortodosso ma intensamente religioso, Bernhard s'interrogò costantemente sulla relazione in divenire fra il suo credo d'origine (il bisnonno era un chassid) e il cristianesimo nell'auspicio di una loro riconciliazione. In Gesù di Nazareth riconosceva – buberianamente – un rabbi ebraico, l'“ultima foglia di amor dei che già dopo un secolo fu sopraffatta dall'innesto di rami d'ulivo stranieri. Non potrebbero – scriveva nel 1964 – deserto e terra promessa, penso oggi, essere un solo sistema, come il segno del Tao che contiene lo Yin e lo Yang? E non potrebbe anche tale simbolo che riunisce in sé gli opposti, deserto e terra promessa, rappresentare una problematica e un compito soprattutto interni dell'uomo ebraico?” Quest'afflato di riconciliazione (“Oh il vecchio ulivo! Il vecchio ulivo. Questo devono comprendre gli Ebrei prima di diventare Israeliani”) si iscriveva nell'alveo di una spiritualità sincretistica nel suo senso più nobile (come avvertiva Elémire Zolla) e venne perseguito in modo inesorabile, quasi fosse per lui una necessità vitale, tramite l'auscultazione di quello che chiamava il “mondo delle Immagini”. Cio non venne mai meno, né durante i dieci mesi di prigionia nel campo d’internamento di Ferramonti, in Calabria (fra il 1940 e il 1941) né dopo il suo rilascio allorché, nascosto in una stanza attigua al suo appartamento fino alla liberazione di Roma, abbinò allo studio della teologia e dell'esegesi biblica quello dell'entelechia, concetto a lui caro, e tentò di rintracciare nella filigrana degli drammatici eventi (che lo toccarono in prima persona) e di là dalla loro assurdità, l'esplicarsi di costanti mitologiche e dinamiche transpsichiche (in primis nelle proiezioni dell'Ombra dei tedeschi sugli Ebrei, ma anche viceversa) che si riverberano e combattono nelle profondità sommerse di ciascun individuo.

Bernhard, i cui genitori morirono tragicamente durante la guerra, crede fermamente che il Regno dei Cieli vada realizzato in questo mondo; e perseguì il compito, intollerabile ancorché necessario, di chiedersi perché Dio abbia permesso l’Olocausto, ponendo quindi l'umana capacità di comprensione di fronte all'incomprensibile, senza voler però approdare a una qualche soluzione filosofica o persino teologica, né d'altronde sancire, come farà Jonas (ma anche Primo Levi), la negazione dell'onnipotenza di Dio dopo Auschwitz, inteso quale emblema del male assoluto. Quella da lui scelta fu una strada impervia, lastricata dal convincimento che scavando nei mitologemi dei popoli, nelle reciproche proiezioni dell'Ombra, e negli esiti nefandi del libero arbitrio, si desse comunque la possibilità un senso, ancorché incommensurabile, al punto da affermare che “attribuire la colpa a Hitler è fermarsi alla superficie. Gli Ebrei devono comprendere perché questo é avvenuto, perché Dio ha chiamato Hitler a distruggerli”. Nell'urgenza di quest'appello espresso nel giugno del 1965, a un mese dalla sua scomparsa, nella sua incoercibile insolubilità , si avverte il dramma di un ebreo – e financo dell'uomo tout court – dinnanzi all'incommensurabilità divina. Ad essa Bernhard rivolgeva l'afflato di riconciliazione tra Antico e Nuovo Testamento, tra il Dio dei profeti e il nuovo Messia, il Salvatore.  Da essa si effonde la Provvidenza, nel cui abbandono egli fiduciosamente confidava, ma richeggia altresì inesorabile l'amonimento biblico “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebrei 10:31). Qualsiasi accadimento dunque – nella vita individuale come nella collettività – obbliga alla ricerca di (un) senso, umanamente inattingibile eppure – secondo Bernhard – innegabile. Perché la shekinà, l'immanente presenza di Dio nel mondo, esorbita dall'intellezione raziocinante (ed è contigua ma non equivalente all'immagine psichica di Dio secondo Jung). Non resta quindi che il lavoro indefesso all'immagine e al simbolo. Lo accomagnarono, anche nelle stagioni più drammatiche, sogni pregni di carica simbolica e talora premonitori, immaginazioni costellate da reviviscenze vetero e neotestamentarie (Ismaele e Tobia, Pilato e il Nazareno...) e intuizioni folgoranti (come quella in cui riconobbe in sogno il punto dello studio di Jung da cui questi, come uno sciamano, traeva energia; fu lo stesso Jung, con stupore, a confermarglielo, mostrandogli in quel punto un'immagine della Sacra Sindone nascosta da un velo): tutto ciò convinse Bernhard della viva presenza di un interregno d'Immagini (accostabile alla realtà psichica secondo Jung come pure al mundus imaginalis di cui tanto scrisse Henry Corbin) che usava chiamare “quarta dimensione” – e che riteneva contenere e guidare la terza, quella in genere più nota. 

 Nel suo percorso terreno l'individuo risulta pertanto essere uno “zimbello” tra le immagini collettive e quelle individuali. Alla loro differenziazione e alla conseguente integrazione di biografia e “mito” che le è sotteso mira dunque in primis la 'psicologia del processo di individuazione' secondo Bernhard, in vista di quella paradossale “libertà in amorosa necessità” di nietzschiana memoria – che non è traguardo, ma continuo processo verso l'obiettivo: accettare, rappresentare e dunque incarnare l'unicità che ci è data in sorte (anche nostro malgrado). “A tale peculiarità – scriveva – è legato il compito della vita. E’ il compito che l’uomo ha ricevuto e che egli ha da porre sopra tutto il resto, sia ai fini della realizzazione di tale peculiarità, sia per affermarla contro tutto il resto (l’eredità collettiva). Questo conflitto tra peculiarità ed eredità è il vero e proprio contenuto della vita.” 

Ricordano i suoi allievi che il suo personale conflitto con la scrittura fu sofferto, essendogli più consona la dimensione del dialogo, dell’alchimia trasformatrice nel rapporto analitico (che spesso diventava anche amicale, a dispetto delle regole del setting): nella pagina scritta il suo pensiero si dispiega in modo asistematico e intuitivo, compatto e a tratti fulmineo, riflettendo un dialogo intimo teso a scandagliare profondità spesso inusitate, ma sempre ricondotte al vaglio della sperimentazione: il che rende avvincente ma non scorrevole la lettura della postuma Mitobiografia (a c. di H.-E. Tissot, Adelphi 1969). Fu d'altronde prodigo nel diffondere l'opera di autori che ben riflettono la vertiginosa ampiezza del suo orizzonte culturale e spirituale. A partire, per l'appunto, da Jung: e soprende scoprire che a neanche tre mesi dalla liberazione dal campo di internamento Bernhard già si adoprava a promuoverne l'opera, suggerendogli una lista di scritti da cui iniziare, allacciando contatti con l'editore Rascher, con Einaudi e Giovanni Bollea, il neuropsichiatra torinese che si offrì di tradurli – e ne avrebbe parlato con Pavese, curatore con Ernesto De Martino della celebre “Collana Viola” (come risulta dalle lettere di un dossier depositato presso la Stiftung der Werke von C.G. Jung, Zürich, © “Dossier Verlegerkorrespondenz Jung-Ed. Giulio Einaudi Turin” che andrebbero senz'altro incorporate in un'eventuale edizione aggiornata – e migliorata – della corrispondenza con Jung).

Nel 1955 Bernhard avrebbe partecipato a una trasmissione radiofonica zurighese in onore degli ottant'anni di Jung con questa lettera colma di riconoscenza:

Caro professor Jung,
riceva, per la fausta ricorrenza odierna, gli auturi più cordiali miei et di mia moglie.
Da quasi vent'anni, attraverso tutti i disorientamenti, ostacoli e pericoli, abbiamo seminato su quest'antico suolo mediterraneo dalle molte e profonde stratificazioni, in un quotidiano lavoro psicoterapeutico, quella sapeienza dell'anima umana che il mondo occidentale deve a Lei. (Abbiamo cercato di rendere più completa questa nostra opera attraverso la pubblicazione di un gran numero dei Suoi scritti nell'ambito di una collana per lo studio della psicologia del profondo).
Assieme a noi, La ricordano oggi, con cuore commosso, anche le nostre colleghe e i nostri colleghi italiani.
Ma sopra tutto debbo esprimer Le la gratitudine dei tanti pazienti che, in virtù delle Sue geniali indagini, ardite e profonde, ebbero modo di conquistare un rinnovamento psichico, un sostegno inteeriore ed un nuovo senso di vita.
Che la Provvidenza Le conceda, per parlare con Chiuangzè, di continuare a portare al compimento il Suo opus per il bene dell'umanità ed a raggiungere la pienezza dei Suoi anni.
” 

Nel dopoguerra dunque Bernhard insieme alla moglie Dora, anch’ella analista, contribuì in modo inappariscente e tenace a sprovincializzare l’orizzonte culturale italiano. Suo sodale e, per un certo periodo, paziente fu Adriano Olivetti, industriale illuminato, antesignano dell'idea di fabbrica quale avamposto di cultura e democrazia nonché fondatore delle (oggi rinate) Edizioni di Comunità (si veda L'Italia di Adriano Olivetti di Alberto Saibene, curatore di scritti olivettiani, e Jung a Ivrea a c. di R. Bernardini, Moretti e Vitali 2018, che include altresì un ricco novero di documenti bernhardiani). Grazie all’amicizia con Bobi Bazlen prese vita la collana ‘Psiche e coscienza’ da lui diretta per l’Editore Astrolabio: ove accanto a opere di Freud e Jung, di Jaspers, Wickes, Tucci, Balint, Adler, Kerenyi, pubblicò – nel 1950 – la versione italiana del ‘Libro dei mutamenti’ o “I King”, testo sapienziale che era solito consultare, anche in sede analitica, come strumento diagnostico e indicazione destinale ad un tempo; mentre l'anno successivo fu la volta de L’abbandono alla provvidenza divina, il settecentesco concentrato di spiritualità cattolica del gesuita Jean-Pierre de Caussade in cui Bernhard riconosceva i lineamenti di un retto atteggiamento verso la vita in consonanza sia con il cristianesimo che con il taoismo (e con il Bhakti-Yoga): non già acquiescienza informe o pietistico fatalismo, ma “abbandono alla verità della natura” (Claudio Modigliani) e dunque vigile dislocazione o, per dirla con l'amico e conterraneo Erich Neumann, 'centroversione' su un territorio liminale (junghianamente, sull'asse Io-Sé) di auscultazione dell'Assoluto e apertura alla sacralità del quotidiano – e a quelle sincronistiche emersioni da cui traluce la filigrana di un destino. Era questo tra i libri a lui più cari (che amava regalare ad amici e pazienti) assieme ai Racconti dei Chassidim raccolti da Martin Buber: a testimoniare la sua predilezione per un ebraismo che di storia in storia, di parabola in parabola coglie il senso profondo dello storytelling dell'individuazione. 

 Ricorda Caterina Cardona come i pazienti di Bernhard costituissero una frangia cosmopolita e variegata dell'intellighenzia italiana coeva. C'é stato chi – come Antonio Gambino – lo ha sentito Maestro nel comunicare “già col suo atteggiamento esteriore (...) quel lasciarsi andare, quell'abbandono, che era poi il centro essenziale del suo insegnamento e della sua via alla guarigione”; chi lo ha definito “uomo religioso nel senso antico” e “conciliatore” capace di “dare un senso un valore un legamento, una eticità di rapporto alle cose e in qualche modo pareva appartenere al mondo culturale mitteleuropeo e a quei fondamenti almeno per quanto riguardava certi gusti o certe preoccupazioni: era nei sogni e nei miti: ma il suo senso dell’ethos del nuovo padre e dell’ombra, la liberazione e la spregiudicatezza della liberazione erano del nuovo paradigma” (Gianfranco Draghi); e ancora chi, come Natalia Ginsburg, fu spiazzata dalla sua apparente, imperturbabile distanza, chi gli riconobbe la conoscenza del “senso esatto degli estremi rimedi”, come scrisse Cristina Campo (aggiungendo: “mi ha ridato, come altre volte, un pezzetto di terreno su cui posare i piedi"); mentre “l'impatto con Bernhard” portò Giorgio Manganelli a “rompere” con l’idea di “un’unica autobiografia. (...) l’idea dell’unicità dell’io e quindi una decomposizione dell’immagine della mia personalità, di quello che io ero”. Vi fu infine chi prese le distanze dagli aspetti più ‘sulfurei’ e mercuriali del suo operare, come li definiva Mario Trevi, il quale altresì ricordava: “a noi come pazienti-allievi (...) diceva: leggete tutto, sappiate prendere da tutto, e poi dimenticatevi di tutto al momento opportuno”. 

 Bernhard non ebbe (né poté avere) continuatori stricto sensu, nella prima generazione degli analisti junghiani italiani, o imitatori, come ricorda il suo allievo Paolo Aite, psicologo analista e antesignano del gioco della sabbia in Italia; ognuno per così dire ricevette una parte della sua eredità spirituale da proseguire. Basti qui qualche nome: Bianca Garufi, tra le sue primissime allieve, musa ispiratrice di Pavese (v. Una bellissima coppia discorde, a c. di M. Masoero, Olschki 2011), Gianfranco Tedeschi (autore de Il Tao della psicologia, Liguori 2000), Marcello Pignatelli, Mario Trevi, cui dobbiamo testi indispensabili per un approccio intelligentemente critico a Jung, e poi Mariella e Vincenzo Loriga, Aldo Carotenuto, Francesco Montanari, Giancarla Innocenti, Gianfranco Draghi, grande eclettico ed 'eretico' della psicologia analitica nonché artista ed attivista per il federalismo europeo, che introdusse la Gestalt di Fritz Perls in Italia integrando le esperienze teatrali di Eugenio Barba e Jerzy Grotowski con lo psicodramma – e ancora Mario Realfonso, Silvia Rosselli, Mario Moreno, Silvia Montefoschi, Enzo Lezzi, Giuseppe Donadio, Enrico Maffei, Nino Lo Cascio... E come non ricordare altresì la poetessa Amelia Rosselli, il critico letterario Giacomo Debenedetti, la scrittrice veneziana Carla Vasio, il poeta e saggista John Orley Allen Tate ed infine regista Vittorio de Seta, che passò il nome dell'analista a un suo celebre collega. 

 “Salire su da Bernhard era un viaggio verso un altro pianeta che iniziava nel momento stesso in cui prendevi l’ascensore, lento e solenne, tutto aperto sui lati, come una mongolfiera”, diceva Fellini a proposito del suo “vero maestro spirituale”, di “quello che mi aspettava a certi traguardi, a certe tappe”, ”amico fraterno” e “vero padre”. Il regista ne parlava con Aldo Carotenuto in un'intervista del 1976 (una versione della quale è in uscita su Enkelados) confluita nel ponderoso e tuttora fondamentale Jung e la cultura italiana (Astrolabio 1977, purtroppo fuori commercio da decenni). Non fu dunque analisi in senso stretto, ma un rapporto d’eccezione quello che dal 1960 permise a Fellini di bilanciare il suo ardente interesse per l’occulto e il paranormale, aprendogli ulteriori prospettive sulla creatività e sul mondo onirico. A lui dovette il suggerimento di tenere quello straordiario documento che è il Libro dei Sogni (pubblicato da Rizzoli nel 2007 a c. di T. Kezich e V. Boarini). Tale sodalizio si riverbera nella produzione filmica coeva, soprattutto in 8 ½ e in Giulietta degli Spiriti. E se dalla scomparsa di Bernhard nel 1965 si dipanano fili sottili e inequivocabili che tessono la trama del Viaggio di G. Mastorna, il film mai realizzato dedicato all’oltretomba, col Satyricon s'inizia una fase più corale dell'opera felliniana – come attesta lo psicologo analista Peter Ammann, assistente volontario sul set di quell'inno al culto della Grande Madre di visionaria, straniante sensualità. Tra le numerose iniziative culturali e cinematografiche in occasione del centenario della nascita del grande regista, spicca un docufilm singolare e sincretico, direi addirittura sinestetico, “Fellini e l'Ombra” di Catherine McGilvray (IT/CH, 2021), che scandaglia e gioca con le attinenze tra Fellini, Bernhard e Jung, mercé l'ausilio di testimoni, filmati d'epoca e animazioni. 

 Bernhard rimase, come ricorda la sua allieva svizzera Hélène Erba-Tissot un solitario, un Einzelgänger potremmo dire, tenendo a mente il significato pressoché letterale di “colui che segue il proprio percorso”; e al contempo fu per così dire un 'influencer ante litteram' il cui messaggio merita di essere recuperato, meditato, valorizzato. A ciò concorre in misura ponderosa l'istituzione dell'Archivio Ernst e Dora Bernhard presso il Centro Aspi (Archivio storico della psicologia italiana dell’Università di Milano-Bicocca): https://www.aspi.unimib.it/collections/occurrence/detail/503/. L'archivio, attualmente in fase di catalogazione, è nato da una donazione di Luciana Marinageli, curatrice (nel 2011 per Aragno) delle Lettere a Dora dal campo di internamento di Ferramonti (1940-41) e dell'I Ching di Ernst Bernhard (La Lepre, 2015) e che si appresta a pubblicare un altro scritto bernhardiano – come anticipa in questo numero di ParkTime Magazine. Esso rappresenta una vera e propria miniera di scritti inediti, corrispondenze e sicure sorprese per chiunque s'interessi alla storia della psicologia del profondo nel nostro Paese e al suo impatto tentacolare e sommerso.

Riproduzione riservata © Copyright I Parchi Letterari


In foto: 

Lettera di E. Bernhard a D. Friedländer Bernhard dal Campo di concentramento di Ferramonti, 28.7.1940 (per gentile concessione dell'Archivio Ernst e Dora Bernhard, Archivio Storico della Psicologia Italiana – ANSPI), v. Lettere a Dora, a c. di L. Marinangeli, Aragno 2011

Cartolina di E. Bernhard a D. Friedländer Bernhard dal Campo di concentramento di Ferramonti, 25.2.1941, recto (per gentile concessione dell'Archivio Ernst e Dora Bernhard, Archivio Storico della Psicologia Italiana – ANSPI), v. Lettere a Dora, a c. di L. Marinangeli, Aragno 2011

Cartolina di E. Bernhard a D. Friedländer Bernhard dal Campo di concentramento di Ferramonti, 25.2.1941, verso (per gentile concessione dell'Archivio Ernst e Dora Bernhard, Archivio Storico della Psicologia Italiana – ANSPI), v. Lettere a Dora, a c. di L. Marinangeli, Aragno 2011.


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