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Casentino: terra di dantesca memoria

06 Gennaio 2021
Casentino: terra di dantesca memoria
Il forte legame di Dante con il Casentino non è sfuggito a Emma Perodi che nelle sue novelle ha ricordato il grande poeta. Alberta Piroci Branciarolo ci porta in viaggio dalla sorgente dell’Arno all’Archian Rubesto

Dante Alighieri (Firenze 1265 – Ravenna 1321) poeta del quale nel 2021 si celebra il settecentesimo anniversario della morte, ebbe uno stretto legame con la valle del Casentino. Partecipò ventiquattrenne alla battaglia di Campaldino e negli anni che vanno dalla prima condanna del gennaio 1302 alla morte dell’imperatore Enrico VII nell’anno 1313, fu presente in modo stabile anche se non continuativo presso i conti Guidi che dimoravano nei loro castelli di Porciano, Romena, Poppi, solo per citarne alcuni dei più noti. 

I documenti indicano Dante come portavoce e ambasciatore del conte di Romena, Alessandro Guidi, capitano della Lega dei Bianchi esiliati della Toscana; delle tredici lettere che del sommo poeta ci rimangono, una buona parte risultano scritte da questa valle e cinque di esse portano data e luogo. Dal castello di Poppi scriverà all’Imperatrice Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, per conto della contessa Gherardesca. 

Nelle tre cantiche della Divina Commedia molti sono i rimandi, le descrizioni, i personaggi del Casentino che Dante evoca: Mastro Adamo, il conte Ugolino padre di Gherardesca, Bonconte da Montefeltro caduto a Campaldino, San Romualdo fondatore dell’Eremo e del monastero di Camaldoli, San Francesco che sul monte della Verna, ricevette “l’ultimo sigillo” (stimmate) e proprio per questo straordinario evento Francesco è stato definito l’Alter Christus e la Verna, il secondo Calvario e il monte più santo al mondo (Non est in toto sanctior orbe mons) così come recita un’iscrizione posta presso l’antico ingresso al santuario. 

Il nostro viaggio inizia dalle sorgenti dell’Arno, fiume che attraversa tutta la valle del Casentino e che Dante ricorda nel XIV canto del Purgatorio: E io: «Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia. Di sovr’ esso rech’ io questa persona: dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno, ché ’l nome mio ancor molto non suona». «Se ben lo ’ntendimento tuo accarno con lo ’ntelletto», allora mi rispuose quei che diceva pria, «tu parli d’Arno». E l’altro disse lui: «Perché nascose questi il vocabol di quella riviera, pur com’ om fa de l’orribili cose?». E l’ombra che di ciò domandata era, si sdebitò così: «Non so; ma degno ben è che ’l nome di tal valle pèra; ché dal principio suo, ov’ è sì pregno l’alpestro monte ond’ è tronco Peloro, che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno, infin là ’ve si rende per ristoro di quel che ’l ciel de la marina asciuga, ond’ hanno i fiumi ciò che va con loro, vertù così per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga: ond’ hanno sì mutata lor natura li abitator de la misera valle, che par che Circe li avesse in pastura” ( Pg. XIV- vv.16-42) 

Il monte Falterona viene ricordato da Dante anche nel Convivio (IV-IX-8): ”E in ciascuno di questi tre modi si vede quella iniquitade che io dico, ché più volte a li malvagi che a li buoni le celate ricchezze che si truovano o che si ritruovano si rappresentano; e questo è sì manifesto, che non ha mestiere di pruova. Veramente io vidi lo luogo, ne le coste d’un monte che si chiama Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d’uno staio di santalene d’argento finissimo vi trovò, che forse più di dumilia anni l’aveano aspettato”. Il monte Falterona è la seconda cima più elevata dell'Appennino tosco-romagnolo, dopo il vicino monte Falco; si trova nel cuore delle Foreste Casentinesi e fa parte del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona. 

Nel versante meridionale facente parte del territorio comunale di Pratovecchio Stia, a quota 1.358 metri, si trova una sorgente (detta Capo d'Arno), considerata l'origine del fiume omonimo nonché maggior corso d'acqua toscano. 

La seconda tappa del nostro itinerario è presso il castello di Porciano, possesso dei Conti Guidi, proprietari di molti altri castelli in Toscana e Romagna, fin dal secolo XI (1017). Il castello si trova nel Comune di Pratovecchio-Stia e la grande torre che è ancor oggi visibile, fu costruita nel corso del XIII secolo, in concomitanza con l'affermazione del ramo dei Conti Guidi di Porciano - Modigliana di cui divenne una delle maggiori sedi di rappresentanza.

All'inizio del XIV secolo, durante l'apogeo politico e culturale del castello di Porciano, Dante fu qui ospite dei Conti Guidi nel corso del suo esilio da Firenze e vi scrisse, tra il 1310 e il 1311, le tre famose lettere “Ai Principi e Popoli d’Italia”, “Ai Fiorentini”, “Ad Arrigo VII”.I Conti Guidi lasciarono Porciano nel 1442, quando l'ultimo conte, Ludovico, si fece monaco a Firenze. In seguito il castello passò prima alla Repubblica di Firenze e poi al Comune di Stia. Della centralità di Romena, località cui si può giungere seguendo il corso dell’Arno, e attraversandolo a Pratovecchio, recano testimonianza la prima e la seconda epistola del 1304: la prima scritta dall’Alighieri in nome di Alessandro da Romena, capitano della Parte Bianca di tutta la Toscana, al cardinale Niccolò da Prato che aveva ricevuto nel 1303 da parte di Benedetto XI, l’ufficio di legato apostolico; la seconda scritta a Oberto e Guido di Romena dopo la morte di Alessandro loro zio. 

Celeberrimo è l’episodio del XXX canto dell’Inferno nel quale il poeta narra la vicenda del falsario Mastro Adamo incontrato nell’ottavo cerchio della decima bolgia, con il ventre gonfio, arso dalla sete e in preda all’odio che manifesta impotente contro i conti di Romena che lo istigarono a battere fiorini falsi: “Ivi è Romena, là dov’io falsai/La lega suggellata del Batista;/per ch’io il corpo su arso lasciai./Ma s’io vedessi qui l’anima trista/Di Guido o d’Alessandro o di lor frate,/per Fonte Branda non darei la vista.” (Inf. vv. 73-78) 

Il viaggio prosegue fino a Borgo alla Collina (Comune di Castel San Niccolò) dove nella chiesa di San Donato è possibile sostare di fronte al sarcofago monumentale di Cristoforo Landino realizzato su disegno di Antonio Bartolini nel 1848. Il Landino, autore delle Disputationes Camaldulenses e primo commentatore della Divina Commedia, fu segretario della Repubblica Fiorentina dalla quale ebbe in dono il castello di Borgo alla Collina sul finire del Quattrocento, castello che era appartenuto alla contessa Elisabetta dei Guidi di Battifolle. Al grande filosofo ed umanista, la cui famiglia era originaria di Pratovecchio, è dedicato il medaglione marmoreo centrale del sarcofago che lo ritrae a mezzo busto a bassorilievo. 

Ed eccoci giunti alla piana di Campaldino dove, ai piedi del colle di Poppi, è possibile ammirare La colonna di Dante, il monumento che fu eretto nel 1921 nel sesto centenario della morte del sommo poeta. Dante partecipò alla battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289, in qualità di feritore a cavallo come risulta da una lettera riportata da Leonardo Bruni, nella quale confessò di avere avuto “temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia”. Lo scontro si concluse infatti con la vittoria dei fiorentini e la morte dei ghibellini Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo e del capitano Bonconte da Montefeltro, padre di Manentessa, sposa del conte Guido Selvatico di Battifolle di Pratovecchio. Il corpo di Bonconte non venne ritrovato e Dante ricorderà questo episodio nel V canto del Purgatorio immaginando la fine del valoroso capitano: ”Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura; per ch’io vo tra costor con bassa fronte». E io a lui: «Qual forza o qual ventura ti travïò sì fuor di Campaldino, che non si seppe mai tua sepultura?». «Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce in Apennino. Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano, arriva’ io forato ne la gola, fuggendo a piede e sanguinando il piano. Quivi perdei la vista e la parola; nel nome di Maria fini’, e quivi caddi, e rimase la mia carne sola. Io dirò vero e tu ’l ridì tra ’ vivi: l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno gridava: “O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l’etterno per una lagrimetta che ’l mi toglie; ma io farò de l’altro altro governo!”. Ben sai come ne l’aere si raccoglie quell’umido vapor che in acqua riede, tosto che sale dove ’l freddo il coglie. Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento per la virtù che sua natura diede. Indi la valle, come ’l dì fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento, sì che ’l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde, e a’ fossati venne di lei ciò che la terra non sofferse”. (Pg. V - vv. 85-129) 

Percorrendo la ciclabile è possibile arrivare nel luogo dove l’Archiano confluisce nell’Arno e dove Dante immagina e descrive gli ultimi istanti di vita del capitano ghibellino Bonconte, ferito a morte a Campaldino. Lì, oggi è presente un cartellone commemorativo dell’episodio dantesco che lo ha reso celebre.

Il Centro Creativo Casentino, il Parco Letterario Emma Perodi e il Comune di Bibbiena hanno portato a termine il progetto di valorizzazione di questo luogo della memoria che fa da sfondo al V canto del Purgatorio. Ed è proprio in questo V canto che Dante evoca l’eremo di Camaldoli fondato dal ravennate Romualdo agli inizi del secolo XI. Il monaco, fondatore dell’Ordine dei camaldolesi, è ricordato da Dante nel XXII canto del Paradiso: “Qui è Maccario, qui è Romoaldo/ qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo” ( Pd. vv. 46-51)

Il ricordo del paesaggio casentinese nella Divina Commedia non si limita infatti solo all’Inferno e al Purgatorio. La suggestione di questi luoghi ritorna anche nella terza cantica, nel Paradiso, dove parlando di San Francesco, Dante ricorda il crudo sasso della Verna: una delle oasi di pace immerse nella natura del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, un luogo di grande spiritualità che sa parlare al cuore dell’uomo. È qui, è alla Verna, che San Francesco ricevé le stimmate, i segni della passione, del dolore dell’uomo-Dio: Gesù Cristo. 

Il nostro viaggio si conclude presso il santuario facendo riferimento all’ XI canto del Paradiso nel quale Dante ricorda san Francesco che: ”nel crudo sasso intra Tevero e Arno/ da Cristo prese l’ultimo sigillo/ che le sue membra due anni portarno” .(Pd. vv. 106-108)

Il forte legame di Dante con il Casentino non è sfuggito ai novellieri di varie epoche come Sacchetti e la Perodi che nelle loro novelle hanno ricordato il grande poeta, le sue vicende biografiche e le leggende che nel tempo si sono sviluppate intorno al poeta errante, visionario che, come diceva Ugo Foscolo, è stato capace di descrivere tutte le passioni umane, tutte le azioni, i vizi e le virtù che colloca nella disperazione dell’Inferno, nella speranza del Purgatorio e nella beatitudine del Paradiso.

Foto di copertina : Parco Nazionale Foreste Casentinesi Il Santuario della Verna (foto di Loreno Arfelli)

Credits Fotografie Alberta Piroci Branciaroli
Sorgente dell'Arno e relativa iscrizione: Alessandro Contedini, Fonte Branda e iscrizione: Riccardo Starnotti

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