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Il ruolo dell’editoria ticinese nel Risorgimento

20 Settembre 2022
Il ruolo dell’editoria ticinese nel Risorgimento
Fino agli anni ’50 dell’Ottocento la frontiera italo-svizzera rappresentava in ambito cultural-editoriale un confine che favoriva la produzione e il traffico librario. Con l’introduzione della libertà di stampa le cose cambiarono drasticamente.

In seguito alla sconfitta, all’abdicazione e all’esilio di Napoleone e alla conseguente dissoluzione del Regno d’Italia, nelle regioni della Lombardia e del Veneto si assiste alla riaffermazione del potere d’occupazione austriaco e, secondo quanto sancito dal Congresso di Vienna (1814-1815), all’istituzione del Regno Lombardo-Veneto con capitale Milano. Il clima che si respirava in quegli anni era quello di una «mortificante restaurazione», che, nello sforzo di ripristinare le pratiche e il modello societario e culturale in vigore durante l’Ancien Régime, in tutta Europa soffocava le idee di emancipazione diffuse con le guerre napoleoniche, provocando «l’assopimento della vita civile, intellettuale, letteraria»[1].
I funzionari governativi austriaci giunti a Milano predisposero a questo scopo un sistema di norme legali nel tentativo di arginare la pubblica diffusione di idee dissidenti, ritenute sovversive o critiche nei confronti dell’Impero, che si tradusse nell’istituzione, nel 1816, del Regio Ufficio di Censura. Uno degli ambiti più strettamente monitorati da questo apparato di controllo fu quello cultural-editoriale e del mercato librario, all’interno del quale possedevano lo statuto di sorvegliati speciali quei testi che, in modo più o meno esplicito, si rifacevano alla propaganda liberale e alla figura di Napoleone… 

 “Una stamperia vale come un esercito” 
Ne era convinto Filippo de Boni – attivista mazziniano, democratico e anticlericale – autore de Il Papa Pio IX. Data alle stampe nel 1849 dalla Tipografia Elvetica di Capolago, in terra ticinese, l’opera difendeva il principio di divisione tra Stato civile e Chiesa, designando lo Stato pontificio quale coagulo di forze assolutiste e controrivoluzionarie.
Altrettanto consapevole ne era l’Impero d’Austria nel momento in cui eseguiva la sentenza di Luigi Dottesio, patriota italiano noto in ambito risorgimentale soprattutto per la sua intensa attività di contrabbando e spaccio di sovversivi testi d'ispirazione mazziniana; testi impressi alla Tipografia Elvetica, faticosamente trasportati e infiltrati clandestinamente in Italia. Arrestato il 12 gennaio del 1851 a Maslianico, nei pressi di Como, mentre proveniente dal Ticino tentava di varcare la frontiera, trovato in possesso di materiale sedizioso, fu accusato di alto tradimento e mandato alla forca qualche mese dopo, a Venezia, con l’accusa di 

 essersi trovato in relazione colla direzione della Tipografia Elvetica nella Svizzera, d'aver avuto in consegna dal direttore della tipografia un'istruzione della così detta Società Patria (società, la quale nelle sue tendenze e ne' suoi principi è diretta contro l'esistenza dello Stato, ed eccitante alla rivolta), e di averla trasportata dalla Svizzera in queste province coll'intenzione di consegnarla a un certo Forni in Milano. Ed inoltre (...) d'aver cooperato alla diffusione delle opere rivoluzionarie, stampate nella Tipografia Elvetica (…)[2]

 È pertanto un’isotopia perfettamente calzante quella posta in risalto da Marino Viganò in apertura al volume Riforme Rivoluzione Risorgimento[3] e che rimanda all’idea di un esercito tipografico costituito dalle stamperie della Svizzera italiana – concentrate in particolar modo nel Luganese – attive nel periodo che si estende dalla Rivoluzione francese all’unificazione italiana, un’armata con il suo battaglione «di patrioti fiancheggiatori che trasport[ava] la produzione delle stamperie al di là dei confini». Esercito di cui – assieme a molti altri – faceva parte anche lo sventurato Dottesio, trafficante di idee armato di libri proibiti, pamphlet di propaganda liberale e «plichi di corrispondenza cospirativa», armi rivoluzionarie «improprie ma non meno efficaci di sciabole e moschetti»[4], cui la produzione, la diffusione e il possesso erano proibiti e fortemente osteggiati in Italia. 

 Lo erano invece molto meno in Ticino, dove è «indubbio che le stamperie […] si configurano come centri attivi e temuti di cospirazione contro i regimi dispotici della Restaurazione»[5], non senza suscitare il risentimento e il biasimo delle autorità austriache. Proprio la tolleranza dimostrata dal governo elvetico – talvolta, come nel caso del Ticino, finanche l’appoggio e la simpatia – nei confronti degli esuli risorgimentali e della loro causa fu motivo di grande tensione politica tra i due paesi, tensione che toccò l’apice nel 1853 con il cosiddetto blocco della fame, durante il quale, ordinando l’espulsione dei lavoratori ticinesi dal Lombardo-Veneto e la completa chiusura della frontiera svizzera, riducendo così il Ticino alla fame, l’Austria sperava di far valere il proprio ascendente e di forzare la collaborazione delle autorità elvetiche, inducendole a un regime meno liberale che avrebbe di fatto consentito un maggiore controllo sugli esuli e sulle stamperie dissidenti presenti nel Cantone.

Tipografia Agnelli – Lugano 
 Quanto all’esercito tipografico e al “secolo d’oro” dell’editoria ticinese – che durante i suoi momenti di maggior fortuna ottenne un’eco dalla risonanza nientemeno che europea – gli studi sull’argomento concordano nel decretarne l’avvio nel 1746, assai in anticipo sulla Rivoluzione e sul Risorgimento, con la creazione a Lugano della prima officina tipografica da parte dei fratelli Agnelli, i quali a Milano già vantavano una lunga e solida tradizione famigliare di stampatori e di librai. Il movente dell’impresa editoriale, tentata su territori allora considerati baliaggi italiani in terra elvetica, non mirava tuttavia a provvedere alla domanda del mercato editoriale locale, invero assai contenuta. Sembra al contrario che

 la situazione del territorio, frazionato in comunità rurali e di montagna fra di loro isolate e per lo più dedite a cicliche migrazioni di mestieri, privo di grandi istituti scolastici e di centri di cultura, non lasciava intravedere margini per condurre buoni affari nel settore. La circoscritta domanda locale di libri e altri stampati risultava in effetti largamente soddisfatta dai confinanti centri di Como e Milano.[6] 

 Se nella Svizzera italiana la carenza di strutture votate alla pubblicazione e alla vendita di libri non era perciò avvertita come una particolare mancanza, vi regnava allo stesso tempo una parziale libertà di stampa che – se paragonata all’austero clima di chiusura vigente in Italia – poteva considerarsi fuori dal comune. A dispetto dell’appartenenza alla diocesi di Como, le terre ticinesi erano di fatto al riparo dalle asfissianti interferenze dell’autorità ecclesiastica, la quale imponeva invece sugli stati italiani severe disposizioni censorie. Liberi dai pressanti dettami dell’Inquisizione, a Lugano i fratelli lombardi godevano pertanto di vasta autonomia in materia di riproduzione e di diffusione libraria; l’unico vincolo imposto prevedeva infatti la rinuncia alla stampa di libri critici nei confronti del governo elvetico, il che non ostacolava affatto i disegni degli Agnelli, le cui intenzioni erano ben altre:

 L’autorizzazione del landfogto di Lugano era invece necessaria per le opere concernenti la Svizzera, clausola che gli Agnelli dovettero accettare di buon grado poiché non ne intralciava minimamente i progetti: miravano infatti a un commercio librario e a un’attività editoriale ad ampio raggio, protesi oltre i confini dei baliaggi e dello stesso ducato milanese.[7] 

 È in quest’ottica che, disinteressandosi perlopiù del mercato librario interno ticinese, salvo la stampa di alcuni testi scolastici ad uso delle scuole indigene, nell’arco del suo cinquantennio di attività – prima che fosse travolta e distrutta dalle sommosse popolari controrivoluzionarie nel 1799 – la Tipografia Agnelli si focalizzò su una produzione dai temi di ampio respiro, legata all’attualità politica delle diverse corti europee, distante dalla minuta cronaca locale e destinata a un pubblico cosmopolita. Di grande fortuna beneficiò il settimanale Nuove di diverse corti e paesi, anche detto Gazzetta di Lugano, molto diffuso negli stati italiani centro-settentrionali ma altrettanto conosciuto e richiesto nei Paesi di tutta Europa, dove spesso si scontrava nei divieti posti dagli apparati censori dei governi. Dopo un periodo iniziale caratterizzato da prese di posizione più caute e da una misurata imparzialità nel trattare le grandi questioni d’interesse europeo, dalla controversia attorno all’ordine dei Gesuiti alla contestazione del primato papale e dell'assolutismo monarchico, alle vicende legate alla guerra d’Indipendenza americana (La Gazzetta di Lugano fu il primo periodico in lingua italiana a pubblicare degli estratti della Dichiarazione di indipendenza del 1776), fino alla Rivoluzione Francese (1789), il giornale – così come le altre pubblicazioni firmate Agnelli – assunse gradualmente un’impronta più politicamente schierata e meno compilativa. La Tipografia Agnelli si schierò così ad appoggiare apertamente la polemica antigesuitica, a sostenere i presupposti ideologici dell’Indipendenza americana, diffondendo opere illuministe, aderendo infine alle idee rivoluzionarie delle guerre napoleoniche, scatenando le proteste del governo austriaco, fino al funesto epilogo:

 La scoperta posizione filofrancese della tipografia Agnelli, e in particolare del suo giornale “Nuove di diverse corti e paesi”, determinarono la repentina e tragica conclusione di quell’avventura editoriale durata mezzo secolo: nel 1799, nel corso di una sommossa popolare contro il regime che la Francia rivoluzionaria aveva imposto anche in Svizzera, la stamperia fu saccheggiata e distrutta, e bande locali di rivoltosi uccisero il redattore di quella gazzetta, l’abate Giuseppe Vanelli.[8]

Tipografia Rossi-Veladini – Lugano 
 Se la posizione lasciata improvvisamente scoperta dalla Tipografia Agnelli non era destinata a rimanere a lungo vacante, l’officina che già nel 1799 vi subentrò – la Tipografia Rossi, poi Veladini – si caratterizzò sin da subito per il suo profilo conservatore e filoistituzionale, ostile alla Francia napoleonica e favorevole al governo austriaco, tanto che Rinaldo Caddeo – studioso del Risorgimento che sul ruolo assunto in quest’ambito dal Ticino e dalle sue tipografie ha pubblicato numerosi contributi, tra cui La Tipografia Elvetica di Capolago (1830-1835). Uomini, vicende, tempi (1931) – ne parla in termini di “tipografia dell’Antirisorgimento”. Optando per una politica editoriale volta ad assicurare in primo luogo la conservazione dell’azienda, dopo aver ottenuto l’autorizzazione ad esercitare dal governo provvisorio instaurato dalla coalizione antifrancese, quando nel 1800 l’orientamento politico si capovolse in seguito alla vittoria dell’esercito rivoluzionario sull’esercito austriaco a Marengo, la tipografia si fece «da ostile ad acquiescente con i ‘protettori’ francesi»[9], solo per recuperare immediatamente la sua attitudine filoaustriaca durante la Restaurazione, assicurandosi così una lunga e prospera sopravvivenza di oltre un secolo, durante il quale si affermò tra i maggiori stabilimenti del Cantone. 

 Tipografia Landi – Mendrisio
Definita da Giuseppe Martinola prima tipografia risorgimentale ticinese, la piccola officina avviata dal piacentino Pietro Antonio Landi all’interno del borgo di Mendrisio si colloca idealmente nel solco dell’impresa tentata precedentemente dagli Agnelli, in particolare in ciò che concerne il potenziale sovversivo del materiale prodotto. Si tratta perlopiù di pubblicazioni di carattere politico, di propaganda bonapartista e sovente votate alla satira canzonatoria delle personalità del governo austriaco. A differenza della Tipografia Rossi, la società di Landi fu concepita fin dal principio con l’intenzione specifica di aggirare le restrizioni imposte con l’avvento della Restaurazione in Lombardia. Proprio in ragione della sua marcata propensione antiaustriaca e improntata al liberalismo, a causa delle accese proteste rivolte dalla polizia austriaca e dall’autorità religiosa al governo landamano – la cui priorità rimaneva quella di tutelare i buoni rapporti con i vicini austriaci – la tipografia ebbe vita brevissima, appena qualche mese, in cui riuscì a pubblicare una quindicina di titoli, tutti datati 1817 (anche se perlopiù strategicamente dotati di indicazioni editoriali fittizie), dopodiché Landi fu espulso dal Cantone e lo stabilimento confiscato.

Tipografia Vanelli - Ruggia – Lugano
La Tipografia Vanelli – poi Ruggia – vide la luce a Lugano nel 1823, a solamente un paio d’anni dai tentativi insurrezionali italiani del 1820-21, moti prontamente repressi nella violenza dall’esercito austriaco, con conseguente e precipitosa fuga di numerosi esuli, molti dei quali diretti oltre la frontiera Svizzera. Proprio l’affluenza massiccia e il raggruppamento dei profughi risorgimentali attorno alla Tipografia Vanelli-Ruggia – e insieme a loro dei più ostinati sostenitori ticinesi del liberalismo, che mal sopportavano il regime collaborazionista e antidemocratico instaurato nel Cantone dai Landamani – darà luogo a una strenua e florida compartecipazione ideologica ed editoriale. È su queste premesse che furono pubblicati numerosi volumi – tra cui le opere di Foscolo e di Pecchio – e periodici «di interesse non locale» e di natura apertamente progressista – come il mazziniano Il tribuno – attraverso cui la stamperia fu in grado di «svolgere un’originale azione critica nei confronti della politica di chiusura a tutte le istanze di libertà e progresso messa in atto dalle autorità, assicurando in questo modo una diffusione della produzione anche sul mercato italiano»[10], in piena osservanza del retaggio simbolicamente tramandato a Giuseppe Vanelli, nipote dell’omonimo abate tragicamente ucciso oltre un ventennio prima durante quei moti controrivoluzionari che portarono alla distruzione della stamperia Agnelli, per la quale lo zio sovrintendeva la redazione della Gazzetta di Lugano
L’infiltrazione clandestina nel sottobosco rivoluzionario italiano delle edizioni Ruggia generò ripercussioni di tale risonanza che il direttore della polizia di Milano individuò in quanto tipografia particolarmente problematica

in ispecialità quella del Ruggia in Lugano, conosciuta per essere un’officina da dove sortono e si diffondono in tutte le parti degli scritti e libelli pericolosissimi in materia politica, e dove i nostri sudditi quali collaboratori cooperano immediatamente alla propagazione di quel contagio (…).[11] 

 L’importante contributo apportato al dibattito politico-filosofico dall’intensa attività editoriale della Ruggia concorse in maniera significativa alla pubblica riflessione attorno al tema della libertà d’espressione, tanto che in occasione della Riforma della costituzione ticinese del 1830 fu infine sancito definitivamente il diritto alla libertà di stampa. Questa importante svolta istituzionale avrà tra gli effetti anche quello di conferire un discreto slancio al mercato editoriale interno e alla stampa di interesse locale, fino a quel momento trascurata anche in ragione delle norme censorie vigenti in Ticino, certo vantaggiose per gli esuli e tuttavia ostacolanti per gli autoctoni votati a un atteggiamento critico nei confronti del proprio governo.

Tipografia Elvetica – Capolago
Il 1830 fu anche l’anno di fondazione, a Capolago, di quella destinata a essere ricordata come la più emblematica tra le tipografie risorgimentali ticinesi, il cui nome – come accennato in principio – era ben noto anche al di là del confine, sia al governo austriaco sia ai dissidenti. Benché destinata a divenire un vero e proprio emblema rivoluzionario della lotta al regime, i primi quindici anni di attività dell’Elvetica – vale a dire, in buona sostanza, dalla sua istituzione fino all’entrata in scena nel ’42 dell’editore e tipografo genovese Alessandro Repetti, che nel 1946 ne acquisì la proprietà imprimendo una decisa svolta politica al programma editoriale – si svolsero all’insegna della prudenza e dell’agnosticismo politico, con un catalogo di natura prevalentemente storico-letteraria. Durante questo periodo, conformemente a quanto asserito nell’atto di fondazione, la tipografia si dedicò alla pubblicazione di «opere istruttive con assoluta esclusione di quelle dirette contro la religione e il buon costume» e si assunse l’impegno di «mantenersi imparziale nel conflitto di partiti che potessero […] insorgere o rialzarsi nella Repubblica».
Di fatto, pur in un contesto in cui, a fronte di un bacino di utenza contenuto, già operavano altre due tipografie – Veladini e Ruggia – l’Elvetica fu in grado di ritagliarsi uno spazio sul mercato editoriale con una produzione politicamente non connotata e che tuttavia la contraddistinse dalle concorrenti, ad esempio con la prestigiosa serie de Le Collane:

Le Collane comprendevano i Classici antichi (con Orazio, Luciano, Apulejo), gli Economisti (col Gioja), la Letteratura (col Parini, il Foscolo, il Monti, il Porta, il Pellico perfino in opera omnia e il Niccolini con le sue tragedie a largo smercio) e poi gli Storici (…) (col Macchiavelli e il Guicciardini, il Colletta, il Pagano e il Verri, naturalmente il Botta che allora era lettissimo e, degli stranieri, volgarizzati il Michelet e il Sismondi) (…) fu stampato anche l’Hegel introducendolo in tal modo in Italia.[12]

 Ad anticipare invece il nuovo orientamento che di lì a poco contribuì a fare dell’Elvetica una delle stamperie risorgimentali per antonomasia e a renderla «un centro di riferimento italiano del pensiero democratico, repubblicano e federalista»[13], la ristampa, nel 1844, «di un’infelice edizione francese delle Speranze d’Italia di Cesare Balbo», la quale armò la tipografia di «una sua precisa voce italiana e nazionale»[14] in aperta sfida al dispotico regime austriaco, e di un tono polemico che da quel momento in poi ne connoterà l’intera produzione. Tra gli artefici delle opere più incendiarie autori come Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Carlo Cattaneo e Filippo de Boni. Proprio sotto la supervisione di Cattaneo si svolse la pubblicazione delle raccolte di maggior impatto, che includono 

 i Documenti della guerra Santa d’Italia, in 28 volumetti, tutti dedicati alla guerra del ’48 e che cominciarono ad apparire mentre ancora si combatteva a Roma e a Venezia, l’Archivio triennale delle cose d’Italia, apparso in due volumi (il terzo uscì a Chieri) che dal ’47, anno dell’elezione di Pio IX, giungeva fino alla caduta di Venezia del ’49, e infine Le carte segrete e Atti ufficiali della polizia austriaca in Italia, coprenti il periodo dal 1814 al 1848, trascelti fra ottomila documenti di cui la Tipografia era venuta in possesso per vie diverse e che riuniti in tre volumi, composero tutti insieme una silloge imponente e allora insuperata del malgoverno austriaco in Italia.[15]

Tipografia della Svizzera italiana – Lugano
L’attività della società Ruggia si estinse nel 1842, sfibrata dalle difficoltà economiche, fiaccata dalla censura e dai continui sequestri, indebolita dalle incalzanti richieste di espulsione degli esuli inoltrate dagli Austriaci, che finirono col condizionare l’atteggiamento del preoccupato governo elvetico. Quello stesso anno, Giacomo Ciani – abbiente patriota e uomo politico di origini ticinesi cresciuto a Milano, fuggito con il fratello Filippo in Svizzera (dove strinse amicizia con Mazzini) dopo aver preso parte ai moti carbonari della rivoluzione piemontese nel 1821 – acquistò la società ribattezzandola Tipografia della Svizzera italiana, con lo scopo di pubblicare opere, volumi, opuscoli e volantini di natura cospirativa e antiaustriaca, da diffondere clandestinamente in Italia. L’impresa poté contare sulla partecipazione dello stesso Mazzini e sul contributo di numerosi autori di spicco, come d’Azeglio, Balbo, Gioberti e Cattaneo, il quale affidò a Ciani la stampa de L’insurrezione di Milano, oggi considerato uno dei testi fondamentali del Risorgimento.

Il declino dell’editoria risorgimentale ticinese 
A seguito dei moti rivoluzionari del 1848, fu emanato a Torino lo statuto costituzionale del Regno di Sardegna – noto anche come Statuto Albertino – attraverso il quale fu introdotto per la prima volta in Italia il principio della libertà di stampa. Sebbene questo fosse ancora soggetto a molteplici restrizioni – soprattutto in materia di pubblicazioni a tema religioso – proprio il tanto agognato conseguimento di una maggiore libertà in ambito editoriale costituirà – in quello che Carlo Agliati definisce un «paradosso della storia» – uno dei motivi principali del declino dell’editoria risorgimentale ticinese:

nei primi anni Cinquanta chiudono i battenti le grandi stamperie di indirizzo risorgimentale, la Tipografia della Svizzera italiana e soprattutto l’Elvetica di Capolago, che negli anni d’oro della sua attività si era avvalsa della collaborazione di numerosi intellettuali italiani esuli nel Cantone, e che via via nel corso degli anni Cinquanta ritornano poi nella loro nazione liberata. A far tacere le stamperie d’indirizzo risorgimentale non erano state le proteste e le minacce ricorrenti degli Austriaci padroni del Lombardo-Veneto, che non esitavano a mandare ai lavori forzati, e addirittura al patibolo, chi veniva colto a contrabbandare libri proibiti: per un paradosso della storia, a togliere voce a quelle gloriose imprese, sarà invece la libertà conseguita con la progressiva risoluzione della questione nazionale italiana.[16]

Così, sul finire del 1851, i torchi della Tipografia della Svizzera italiana cessarono ogni attività, mentre la società fu definitivamente sciolta. A questo punto, mentre le altre tipografie ancora in attività, tra cui la compiacente Tipografia Veladini, erano considerate inoffensive, a impensierire gli Austriaci non restava che l’Elvetica.

Come già ricordato, nel gennaio dello stesso anno fu catturato e condannato a morte – e insieme a lui, simbolicamente, tutta la Tipografia Elvetica e l’intera editoria risorgimentale ticinese – uno dei principali agenti di propaganda della stamperia, il comasco Luigi Dottesio. Gli stessi documenti sobillatori – quelli trovati in suo possesso al momento dell’arresto – che gli costarono la pena capitale, svelarono senza più possibilità di equivoco «il sottile lavoro cospiratorio della tipografia nei suoi legami coi patrioti italiani», fornendo infine all’Austria la prova risolutiva della seria minaccia rappresentata dallo stabilimento di Capolago, cui la chiusura fu imposta dalle autorità elvetiche su espressa richiesta degli Austriaci in reazione – o su pretesto – alla Rivolta di Milano del 1853, alla quale seguì anche il già citato blocco della fame:

L’occasione venne col tentativo mazziniano, largamente preparato a Lugano, di far insorgere Milano il 6 febbraio del ‘53. Fu facile allora all’Austria estorcere alla Svizzera, attraverso i suoi commissari mandati nel Ticino, l’espulsione, che fu pressoché generale, degli esuli rifugiati nel Cantone e insieme la chiusura della tipografia che (…) era pur sempre diventata (…) un attivo centro del partito federalista italiano. Pochi giorni dopo il fallito tentativo milanese al Repetti non rimase che consegnare le chiavi della tipografia a chi vi appose anche il catenaccio.[17]

Conclusione 
Se fino agli anni ’50 dell’Ottocento la frontiera italo-svizzera rappresentava in ambito cultural-editoriale un confine che – sebbene in condizioni avverse – favoriva la produzione e il traffico librario in una sorta di reciproco scambio tra i due paesi, con l’introduzione nel 1830 in Ticino e successivamente, nel 1848, in Italia della libertà di stampa, le cose cambiarono drasticamente. Da un lato, la conquista di una maggior emancipazione dalla censura stabilita dallo Statuto Albertino preannunciava – per le ragioni già illustrate – il rapido declino e il tramonto definitivo della stampa risorgimentale ticinese. D’altra parte, il mercato editoriale interno, affrancato anch’esso dai vincoli censori e allo stesso tempo orfano dell’intensa corrispondenza con il mercato librario italiano, abdicò le sue velleità più cosmopolite, assecondando invece un indirizzo più incline al regionalismo, che se da un lato facilitò l’insediamento di un più libero dibattito pubblico e la ricerca di un’identità politica e culturale ticinese – concetto tuttora oggetto di controversie – dall’altro ebbe l’effetto di incoraggiarne alcune derive campaniliste i cui strascichi – purtroppo – si avvertono tutt’oggi:

Ridimensionata dalla crisi degli anni cinquanta, la produzione editoriale ticinese si sarebbe infatti riorganizzata in funzione di una domanda interna via via più intensa e diversificata, finalmente in grado di sostenere, da sola, l’intero settore delle arti grafiche. Il suo assestamento entro i limiti del cantone avrebbe fatalmente alimentato atteggiamenti particolaristici e provinciali, ma anche fornito al paese alcuni importanti strumenti per affrontare i diversi compiti che l’attendevano.[18]


[1] Vittore Branca (a cura di), Il Conciliatore: foglio scientifico-letterario, Volume 1, Firenze, F. Le Monnier, 1953, p. vii.
[2] Angelo Giacomelli, Reminiscenze della mia vita politica negli anni 1848-1853, Firenze, Barbera, 1893, p. 222.
[3] Marino Viganò (a cura di), Riforme Rivoluzione Risorgimento. Antologia di testi civili e politici pubblicati dallestamperie della Svizzera italiana dall’età dei Lumi all’Unità d’Italia, Milano, Mursia, 2007.
[4] Ivi, p. 40.
[5] Carlo Agliati, “Una stamperia vale come un esercito”. L’età aurea dell’editoria ticinese nelle ricerche di Fabrizio Mena e di Marino Viganò, in “Il Cantonetto”, anno 57-58, n. 2-3-4, agosto 2011, p. 74.
[6] Carlo Agliati, “Una stamperia vale come un esercito”. L’età aurea dell’editoria ticinese nelle ricerche di Fabrizio Mena e di Marino Viganò, cit., p. 72.
[7] Fabrizio Mena, Stamperie ai margini d’Italia. Editori e librai nella Svizzera italiana 1746-1848, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2003, p. 21.
[8] Carlo Agliati, “Una stamperia vale come un esercito”. L’età aurea dell’editoria ticinese nelle ricerche di Fabrizio Mena e di Marino Viganò, cit., p. 72.
[9] Marino Viganò (a cura di), Riforme Rivoluzione Risorgimento. Antologia di testi civili e politici pubblicati dalle stamperie della Svizzera italiana dall’età dei Lumi all’Unità d’Italia, cit., p. 32.
[10] Carlo Agliati, “Una stamperia vale come un esercito”. L’età aurea dell’editoria ticinese nelle ricerche di Fabrizio Mena e di Marino Viganò, cit., p. 73.
[11] Archivio di Stato di Milano, Presidenza di governo, 139/45. Mons. Paolo Polidori al ministro von Lützon, 30 dicembre 1830.
[12] Giuseppe Martinola, La tipografia Elvetica di Capolago, in “Scuola ticinese”, n. 94, anno X, serie III, dicembre 1981, p. 37.
[13] Carlo Agliati, “Una stamperia vale come un esercito”. L’età aurea dell’editoria ticinese nelle ricerche di Fabrizio Mena e di Marino Viganò, cit., p. 74.
[14] Giuseppe Martinola, La tipografia Elvetica di Capolago, cit., p. 37.
[15] Ivi, p. 38.
[16] Carlo Agliati, “Una stamperia vale come un esercito”. L’età aurea dell’editoria ticinese nelle ricerche di Fabrizio Mena e di Marino Viganò, cit., p. 75.
[17] Idem.
[18]
Fabrizio Mena, Stamperie ai margini d’Italia. Editori e librai nella Svizzera italiana 1746-1848, cit., p. 357.

Riproduzione riservata ©Copyright I Parchi Letterari

Immagini:

  • Saccheggio della Casa Agnelli li 29 aprile 1799 (1898)Fonte: Archivio di Stato del Cantone Ticino, Bellinzona, Brunel Album 3.3
  • Villa Ciani a Lugano, antica sede della Tipografia Ruggia e della Tipografia della Svizzera Italiana (1925-1933)Fonte: Archivio di Stato del Cantone Ticino, Bellinzona, CD439
  • Foto storica di palazzo della Badia a Capolago, antica sede della Tipografia Elvetica (fine ‘800)Fonte: Archivio di Stato del Cantone Ticino, Bellinzona, Div. 537




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