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Silone e il folklore abruzzese

20 Settembre 2022
Silone e il folklore abruzzese
Come potevo non conoscere uno scrittore geograficamente così vicino a me e che aveva ambientato alcuni suoi romanzi nell’Abruzzo contadino? Era inaccettabile, dovevo almeno provare ad avvicinarmici.

Lo scorso 22 agosto, a Pescina, si è tenuta la cerimonia di premiazione della XXV edizione del Premio Internazionale Ignazio Silone, alla quale ho avuto il piacere di partecipare in quanto vincitore della sezione ‘tesi di laurea e di dottorato’. L’assegnazione del premio non ha rappresentato per me alcun motivo di vanto poiché, come ho spiegato nel mio breve intervento, è stata semplicemente frutto del mio dovere e di un lavoro che mi ha appassionato e divertito molto, nonostante la difficoltà delle ricerche. Sono rimasto sorpreso dall’attenzione che i cittadini riservano allo scrittore e alla premura con la quale organizzano eventi culturali dedicati al suo ricordo. Quello che mi ha fatto più impressione è stato pensare, in quei momenti, a cosa mi avesse condotto fino a lì, quel giorno e in quel preciso luogo.

 Come si sa, alcuni incontri, anche letterari, sono del tutto fortuiti. Il mio incontro con Silone è stato proprio di questo genere, ed è avvenuto abbastanza tardi. Prima di un anno fa, infatti, ne conoscevo solo il nome, e a stento sapevo che fosse abruzzese. Poi le cose sono cambiate lo scorso settembre, quando ho dovuto scegliere l’argomento della mia tesi di laurea. Il lavoro, come avevo deciso, doveva riguardare lo studio del folklore all’interno di un’opera letteraria italiana, campo di studi dal quale sono rimasto affascinato durante un corso universitario. La principale ipotesi di scrittura riguardava le Fiabe italiane di Calvino, opera da me amatissima per avermi fatto avvicinare alla letteratura, quando ero bambino. Nonostante questo, la mia volontà era quella di analizzare qualcosa di più vicino alla sfera folklorica dell’area geografica di mia provenienza, quella molisano-abruzzese. Il nome di Silone, seppur per me ancora sconosciuto ed enigmatico, mi attraeva proprio per la scarsa attenzione che veniva riservata alla sua figura, sia a scuola che fuori. Come potevo non conoscere uno scrittore geograficamente così vicino a me e che aveva ambientato alcuni suoi romanzi nell’Abruzzo contadino? Era inaccettabile, dovevo almeno provare ad avvicinarmici.

 Così, dopo aver letto Fontamara e dopo aver individuato un buon numero di contenuti interessanti su cui poter lavorare, ho deciso, in accordo con il mio relatore, di leggere e analizzare anche gli altri due ‘romanzi dell’esilio’: Vino e pane e Il seme sotto la neve. È proprio in questi due libri che si concentra, in maniera ancora più massiccia che in Fontamara, quell’insieme di elementi che possono essere compresi nella sfera del folklore: la forma mentis fatalistica dei contadini, che concepiscono il futuro come il frutto di profezie e come il compimento dei destini, già scritti da generazioni; le forme di religione e di devozione popolare, come la benedizione degli animali nel giorno di Sant’Antonio abate, oppure il rituale dello ‘strascino’, riportato anche in alcune pagine del Trionfo della morte da d’Annunzio; la sopravvivenza della superstizione popolare, come la credenza dello sguardo invidioso, ovvero il malocchio, e tutto ciò che concerne fatture e malìe; infine, il ruolo che svolgono le narrazioni popolari, come storie di santi, leggende di fondazione o aneddoti che si situano a metà strada tra la fiaba e la novella popolare e le cui origini sono difficili da rintracciare.

 I romanzi di Silone, letti in questa chiave, sono un serbatoio di elementi antropologici molto preziosi, in quanto attestano modi di vivere e di pensare propri di un ceto sociale preciso, quello dei contadini marsicani di inizi ‘900. C’è infatti da dire che, nonostante le tre opere in questione siano appunto romanzi e che quindi siano liberi di offrire una visione distorta o idealizzata del contesto in cui si situano, in realtà riproducono una rappresentazione molto fedele della civiltà contadina di quegli anni, almeno per quanto riguarda le tradizioni popolari. Parte del lavoro che ho svolto, infatti, è consistito nel comparare le usanze riportate da Silone con quelle effettivamente esistenti a cavallo tra ‘800 e ‘900, tramite la consultazione delle più grandi raccolte demologiche abruzzesi, come quelle di Antonio De Nino, Gennaro Finamore, Giovanni Pansa e Emiliano Giancristofaro. Ciò che è emerso dal confronto è che Silone tende sempre a non inventare e, soprattutto, a non idealizzare.

 La riflessione fondamentale che sta alla base del mio lavoro riguarda il modo in cui viene trattato il folklore nella narrativa dell’esilio. A che scopo, nei tre romanzi, inserisce a più livelli così tanti elementi di tradizioni popolari, senza cadere nel rischio del mero regionalismo? Sicuramente non c’è nessun fine estetico nel trattamento di questo materiale, e lo si capisce dall’essenzialità e dalla serietà che caratterizzano alcune descrizioni di questo genere: Silone non spettacolarizza mai, non va mai alla ricerca del dettaglio fascinoso ed esotico che l’elemento folklorico è in grado di emanare, soprattutto se visto da una prospettiva esterna (cosa che invece fa, in maniera molto riuscita e con intenti ben diversi, d’Annunzio). Lo scopo dello scrittore sembra essere puramente mimetico e rappresentativo; in poche parole, usando il termine con le dovute precauzioni, realistico. Quello che a lui importa è offrire al lettore uno spaccato della penosa realtà contadina di inizio secolo, incatenata ancora alle antiche credenze superstiziose e religiose che impediscono il vero riscatto, che soffocano il riscatto degli umili. Il folklore è così visto, in gran parte, come un duro scoglio da superare, ma non si riduce solo a questo: c’è infatti, nei suoi romanzi, un altro punto di vista sulle tradizioni popolari, e lo si nota in alcuni passi ben precisi, soprattutto se, come chiave interpretativa di questi, si prendono in considerazione alcuni scritti autobiografici riguardo la propria terra. Qui emerge il valore che alcune usanze tradizionali conservano, come ad esempio quella natalizia del ‘ciocco’ o quella della fioritura dei mandorli, che sono capaci di insegnare, tramite aneddoti e personaggi di matrice cristiana, valori più largamente umani, come l’ospitalità verso i perseguitati e l’atto disinteressato del donare al prossimo. Quella sfera di valori che Silone definisce ‘l’eredità cristiana’ e che furono fondamentali per la sua formazione di uomo e di ‘cristiano’ libero e sui generis.

 In conclusione, leggere Silone da questa prospettiva è stata per me la conferma della coerenza e dell’autenticità di questo scrittore, del disincantato distacco dai suoi luoghi d’origine ma anche del fortissimo attaccamento alla propria terra, della consapevolezza che il cambiamento sia utopistico ma anche della speranza imperitura in una ‘rivoluzione’ dall’interno che risvegli le coscienze e che liberi, una volta per tutte, gli umili dalle catene dell’ignoranza, che è il fardello di tutte le contrade del mondo che prendono il nome di Fontamara

 Roberto Petrarca

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Immagini: 
Roberto Petrarca con Vincenzo Parisse
Con la mamma, Sig.ra Petrarca, e Romolo Tranquilli , nipote di Ignazio Silone


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