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Il Carnevale storico di Bibbiena

03 Febbraio 2021
Il Carnevale storico di Bibbiena
Giorgio Innocenti Nella novella di Emma Perodi "La fidanzata dello scheletro" si descrive la storia di Amabile e il Carnevale

Le origini del Carnevale di Bibbiena con il suo culmine nell’incendio del “Bello Pomo”(1) e dei successivi festeggiamenti si perdono veramente nella notte dei tempi; quelle della leggenda della Mea invece sono abbastanza recenti, ma in qualche maniera ci riportano al tempo dei Tarlati signori ghibellini di queste terre nella Toscana del ‘300.

I membri di questa famiglia furono nemici acerrimi dei Guelfi fiorentini e dei Perugini e li combatterono aspramente. Siamo nel 1335, Piero Saccone Tarlati volle far guerra a Perugia, alle mura della quale si avvicinò con molti soldati depredando e distruggendo la terra circostante. Aveva fatto la stessa cosa con i villaggi che aveva incontrato lungo il percorso per raggiungerla; erano i giorni tra il 10 e il 12 giugno. I Perugini, con molti armati, si mossero a loro volta verso Arezzo per distoglierli dal far guasti alle loro terre. Pier Saccone fu costretto a ripiegare e tornare a difendere la sua città. I Perugini strinsero d’assedio Arezzo e si accamparono nella zona del duomo vecchio, ma non ritennero opportuno dare l’assalto (2).

Pier Saccone, che era rientrato dentro le mura, preferì non dare battaglia e non uscì e i Perugini, dopo aver fatto danni ai luoghi tutti intorno, smobilitarono il campo e se ne andarono. Molti Aretini sentivano meno avversione nei confronti dei Perugini di quanta ne sentissero per Saccone. Per questo verso la fine di quell’anno, scoppiò ad Arezzo una sommossa contro i Tarlati motivata dalla pesantezza delle gabelle che fu soppressa nel sangue con pesanti condanne emesse il 10 febbraio 1336.
Saccone chiese aiuto a Mastino della Scala per contrastare i Perugini e i Fiorentini. Questa mossa fu un grosso errore, perché i Fiorentini mandarono aiuti ai Perugini che nell’agosto di quell’anno si spinsero nuovamente fino sotto le mura di Arezzo e guastarono il contado facendo ingenti danni.

Il Tarlati, fiutando l’aria come una vecchia volpe, si rese conto che stava diventando sempre più difficile e pericoloso reggere la città con i nemici interni e i Fiorentini e i Perugini che lo incalzavano dall’esterno. Decise di trattare con i Fiorentini la vendita della città di Arezzo. Le trattative, che si protrassero fino alla firma degli accordi definitivi il 7 marzo 1337, iniziarono il 27 gennaio con lo scambio di numerose lettere e proposte.
La cessione della città di Arezzo per dieci anni avvenne per un compenso di 18.000 fiorini d’oro, dati sotto forma di prestito (3).

Negli accordi, oltre ai benefici della pace che si presentava duratura, Pier Saccone Tarlati si tenne Bibbiena ed alcuni castelli più piccoli. Finalmente tutte le guerre, le cavalcate e le conseguenti reazioni dei nemici si chiudevano e ci si garantiva una vita tranquilla da dedicare al lavoro e alle famiglie. Gli accordi finali furono firmati il 7 marzo 1337 (4).  In quell’anno la Pasqua cadde il 20 di Aprile perciò l’ultimo giorno di Carnevale si sarebbe festeggiato il 4 di Marzo.

A Bibbiena si doveva sapere già che la transazione era andata a buon fine e si annusava già la pace imminente. C’era di che festeggiare! Abbiamo una lettera del 25 ottobre 1331 scritta da Pier Saccone e suo fratello Tarlato a Papa Giovanni XXII per notificargli come il popolo aretino fosse esultante per l’ottenuta conferma della giurisdizione su Città di Castello e Borgo San Sepolcro e come stesse festeggiando: “... per luminaria, et falones et hastiludia iubilationum tripudia et alios iocos seculares...” (5), ovvero con luminarie, fuochi, tornei a cavallo, salti a passo di danza e altri giochi antichi.

Ovviamente lo stesso modo di festeggiare doveva essere per forza uguale anche a Bibbiena città rimasta sotto il comando di Saccone. Parrebbe che la tradizione di bruciare il bello pomo (un grande ginepro) a Bibbiena nella piazzetta centrale inizi proprio in quell’occasione.
Il luogo scelto per festeggiare la pace e l’armonia non poteva che essere il confine che divide i due rioni: il Fondaccio e la Piazza Grande (il popolo e la nobiltà).
I vecchi scritti di fine settecento e primi dell’ottocento confermano che la tradizione abbia avuto inizio dal tempo dei Tarlati anche se non se ne ha la certezza documentata.

Questa usanza, che si ripete tutti gli anni e mai interrotta nemmeno durante l’ultima guerra, è giunta fino a noi. La prima documentazione che abbiamo del nostro Carnevale è in una Delibera di stanziamento di “pecunia” che si trova nell’archivio Preunitario Comunale di Bibbiena ed è datata 6 febbraio 1514:
”Die 6. Februarii 1514 = Gli onorandi Priori, e Gonfaloniere del Comune di Bibbiena con loro partito di fave cinque nere per lo si, atteso li Giovani di Bibbiena per gentilezza e magnanimità aver fatto un signore del Carnevale, dove modernamente si dà piacere, e sollazzo, e concorrono insieme a qualche spesetta; pertanto per dargli animo, e mostrare alquanto di umanità inverso di loro, gli stanziamo lire dieci piccole della pecunia del Comune di Bibbiena nelle mani di Guasparre di Bernardo Conduttore della Piazza, da pagarsi senza suo pregiudizio al Signore della Festa”.
Pier Saccone era morto solamente da circa centocinquanta anni e, come ci ricorda questo scritto, la voglia di festeggiare il Carnevale non si era estinta. Delle nostre tradizioni se ne occupò anche l’occupante Governo francese all’inizio dell‘800, che accelerò le procedure per conoscere il territorio. Per lo studio necessario alla pianificazione economica e politica della nostra zona fu richiesta, al “Maire” “Una statistica della Comune di Bibbiena” (6), dove furono fatte trentacinque domande.
In una di queste si chiedeva: “Sonovi delle feste non religiose, o usi locali propri a fissare la curiosità?”.
Il Maire rispose: “Per un’antica costumanza dell’origine della quale non si ha alcuna memoria positiva, nell’ultimo giorno di Carnevale d’ogn’anno dal Mezzodì al Tramontare del sole, il popolo di Bibbiena è diviso in due partiti, o vogliamo dire fazioni, l’una detta della Piazza, l’altra del Fondaccio, le quali si distinguono con nastri al cappello di colore differente. Il mezzo della Strada che traversa la Piazzuola da Levante a Ponente è il confine che niuna delle due parti in detto Spazio di tempo deve oltrepassare, ed altre volte a memoria nostra sarebbe stato pericoloso l’azzardarvisi.
Al primo suonarsi della Campana del Pubblico circa l’Ore 23, le due partite si radunano separatamente, quella della piazza, nella Piazza grande, e quella del Fondaccio fuori appena dell’abitato, dove anticamente era la Porta Ghibellina, ed ambedue fanno contemporaneamente un ballo in tondo accompagnato dal canto di alcuni Versi ad intercalare, i quali da tempo immemorabile sono passati di padre in figlio sino a noi7, e che si vuole nascondino un significato di cui sarebbe ben difficile l’interpretare adesso il vero senso al secondo suono della Campana del Pubblico si dà fine ai Balli, e le due Fazioni cessano colla solita tranquillità naturale agli abitanti”. Sembra nondimeno che si accosterebbe più al verosimile chi dicesse che questa costumanza fosse stata introdotta in Bibbiena da Pier Saccone. […]

Ci ricordiamo di aver veduto cogli occhi nostri 40, o 50 = anni fa i più vecchi del paese alquanto esaltati stare in quel giorno al posto rispettivo con armi all’uso antico, e non permettere, che quei del Fondaccio varcassero la linea di demarcazione della piazza e viceversa, il che dà indizio che anticamente quest’emulazione era molto più riscaldata; con tutto questo vi è memoria essere giammai accaduto alcun disordine disgustoso, e l’ultimo segno della campana ha sempre pacificate queste ire effimere, ed apparenti […]. Ora tornando alle origini di questa costumanza, è molto verosimile che Pier Saccone ne sia stato l’autore. […] veniva Saccone a trastullare anch’egli con questo mezzo il popolo di Bibbiena, il quale doveva essere assai angustiato, e dal servizio militare, e dalla sovrabbondanza di truppe, che Saccone teneva qui di piè fermo altronde egli è certo, che la tradizione venuta fino a noi, è ritenuta costantemente dai Vecchi del Paese, fa rimontare questa costumanza all’epoca di Pier Saccone […] (8).

Veniamo ai tempi nostri. Nel 1937, in piena era fascista, il Maestro Tito Bartolini, dopo aver visto bruciare più volte il “Bello Pomo” nel giorno di martedì grasso e forse accorgendosi che nella mente dei Bibbienesi si stava allentando un po’ l’attenzione a quelle fiamme giocose legate alla Bibbiena del ‘300, pensò di rilanciare l’interesse popolare su quelle vicende.
Lo fece “inventando” una leggenda che potesse legarsi a quel Signore di Bibbiena che si chiamava Pier Saccone Tarlati.
Lo fece prendendo spunto e collegando il Carnevale ad una delle fiabe del libro de “Le Novelle della Nonna” di Emma Perodi.
Quella presa in considerazione era intitolata “La Fidanzata dello Scheletro” (9).

Sono facilmente comprensibili i riferimenti a quella novella nella ricostruzione della storia del nostro Martedì Grasso e che ne conferma le radici antiche. Per comprendere meglio come il maestro Tito si allacciasse a quel libro, voglio riportare alcune significative righe di quanto scrisse la Perodi:
“C’era una volta a Bibbiena una ragazza per nome Amabile, che era reputata in paese la bella delle belle. Il padre faceva il tessitore di panni, dunque Amabile non era punto, ma punto ricca … Dovete far sapere che da anni e anni a Bibbiena c’è la costumanza di far baldoria l’ultimo giorno di carnevale. In quel dì una comitiva di Fondaccini (10) con nastri celesti e merli vivi o morti, legati per le zampe al cappello … Appena suona la campana della torre, tutta questa gente va in Piazzolina dove i Fondaccini hanno acceso il Pomo Bello11, che è un rogo formato di fascine di ginepro … Costui appena vide Amabile se ne innamorò a tal segno che non si rammentò neppure che la ragazza era di bassa condizione sociale, e lui di famiglia nobile …”

La ragazza, bella tra le belle, di cui il giovane Signore si innamorò, nel rispetto dei versi antichi che si cantano, fu chiamata “Mea” e il Signore fu Marco, il figliolo più caro di Pier Saccone Tarlati. Mea, già promessa a tale Cecco tessitore fu rapita provocando l’ira del popolo del rione del Fondaccio avverso ai Piazzolini fazione dei ricchi e nobili. Pesava fortemente anche l’affronto fatto ad un giovane di quel popolo. Da qui una sorta di ribellione che si quieta e si spenge solo con i balli che si fanno in cerchio (iubilationum tripudia) attorno al fuoco del ginepro che brucia e si rinsalda l’amicizia tra le due fazioni.
Poi assieme si brinda abbondantemente al canto di alcuni versi che sembrano ricordare l’occupazione francese (12).

1.Il bello Pomo è il falò che viene acceso nella centrale Piazzolina (Piazza Roma) a Bibbiena l’ultimo giorno di Carnevale

2. U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo, V. III, Prefazione, p. VI, Firenze 1937

3.U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo, V. II, d. 773, Firenze 1916

4. U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo, V. II, dd. 769 – 776, Firenze 1916.

5. U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo, V. III, p. 300, Appendice.

6. Questa “Statistica della Comune di Bibbiena” è composta da 35 domande che il Governo Francese fa al Maire di Bibbiena per conoscere meglio il territorio. Contiene anche le risposte. È un manoscritto che si trova alla Biblioteca Rilliana del Castello di Poppi.

7 Si cantano tre ballate tutte molto antiche. La ballata nella poesia italiana antica è un componimento di origine popolare da cantare in accompagnamento alla danza. Una di queste ci ricorda “La pastorella mia” di Olimpo da Sassoferrato. Siccome il futuro Cardinal Dovizi agli inizi del ‘500 praticava le Marche di Olimpo, non sappiamo se la ballata possa aver ispirato la “Pastorella …” o viceversa; comunque pare certo il collegamento temporale e spaziale. Fra’ Olimpo era il nome con cui è noto il poeta e oratore Baldassarre Olimpo degli Alessandri (Sassoferrato, Ancona, ca. 1486-? 1570): frate minore, condusse vita errabonda, acquistando fama come predicatore, ma è più noto quale cultore di poesia popolare. Il Dovizi presentò nel palazzo di Urbino la prima commedia Italiana in prosa: “La Calandria”, commedia che sovvertì quello che rappresentava la scrittura teatrale del ‘500. Presumibilmente anche le altre due ballate sono di quel periodo, anche se non se ne conosce l’autore, e tutte hanno una musicalità particolare che non si sente altrove. In una delle tre Canzoni, dal significato impossibile, si ricorda il Bello Pomo.

8. Statistica della Comune di Bibbiena

9. Emma Perodi, Fiabe fantastiche – Le Novelle della Nonna, Borgaro (TO), ottobre 1993, pp. 192-193.

10. Fondaccini sono i cittadini che abitano il rione del Fondaccio.

11. Ancor oggi l’accensione del fuoco è prerogativa di un Fondaccino e a mia memoria è sempre uno della famiglia Bertelli. Col tempo si è aggiunto “l’aiuto” del personaggio più anziano del Comune.

12.  L’E grì come l’ho sentita e come l’ho cantata io: Evviva il vino /Il vino della frasca/ E quella coppa in mano/ Al tuo compagno presta/ Compagno dammela /Come fanno in nostri amici/ Suonando le piffere / Facendo così (chi ha ricevuto la coppa beve, senza interruzione e senza staccare la bocca fino a che gli altri cantano ripetendo più volte il seguente ritornello): E grì e grì/ E grì lalleralera/ E grì e grì / E grì lalleralà/ E grì e grì / E grì lalleralera/ E grì e grì E grì lalleralà (poi veniva passata la coppa o il fiasco, ad un altro che aveva cantato Compagno dammela … e si ripeteva dall’inizio).

Credits Foto: Giorgio Innocenti


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