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La coscienza circostante

20 Ottobre 2021
La coscienza circostante
Circostante è anche l’utilità di tutto ciò che è considerato inutile, come le scienze dell’animo umano eclissate sotto il velo dell’invisibilità da una società incurante del vero bene. Sono Matteo Cosini, come quel Zeno di cui avrete sentito

LA COSCIENZA CIRCOSTANTE

PREFAZIONE 
Circostante è il riso che suscita l’espressione verbale del sentimento fuori dalla spettacolarizzazione di social e televisioni, circostanti sono la letteratura ipercontemporanea e il conseguente totale disinteresse nei suoi confronti, circostanti sono le urla di dolore inascoltate provenienti dal mare, circostante è la coscienza, che ha esacerbato massimamente la sua dimenticanza degli ultimi; ma circostante è anche, secondo me, l’enorme utilità di tutto ciò che è superficialmente considerato inutile, come le scienze dell’animo umano, eclissate sotto il velo dell’invisibilità da una società incurante del vero bene.

 Economisti e ingegneri peccano di presunzione nel considerarsi le uniche figure sulle quali il mondo del futuro si reggerà. Hanno migliorato le condizioni del Nord del mondo, è vero, ma con la loro assoluta fiducia nel progresso e nella produzione illimitata ne hanno migliorata soltanto una parte, avvelenandolo per intero. Automobili elettriche e risorse energetiche rinnovabili sono state inventate ormai da decenni, eppure il loro utilizzo è sempre molto scarso, e questo accade, nemmeno a ripeterlo, perché l’uomo è una pianta storta corrotta dagli interessi economici. I progressi della tecnica e dei mezzi scientifici saranno soltanto vani traguardi fin quando non si smetterà di sacrificare la cura delle menti per la cura di bisogni giorno dopo giorno sempre più futili. 

 La pandemia lo ha dimostrato: anche la scienza ha dei limiti, non trova sempre soluzioni alternative nel breve periodo, quantomeno non subito, e senza l’arte l’uomo non può stare. Che ne sarebbe stato di molte persone sole senza la compagnia di cinema e libri? Senza le canzoni, come avrebbe esorcizzato la paura un’umanità atrocemente impaurita? Quanti e quali animi si sarebbero potuti consolare senza la poesia? La natura ci ha fatto definitivamente capire quanto sia più forte, forse per imporci un maggior rispetto nei suoi confronti, forse per farci concentrare di più su ciò che conta davvero. 

 Affacciamoci verso il mondo del domani e riscopriamo l’arte, coltiviamo lo spirito, quantomeno questo ci aiuterà a sentirci meno soli. Ci aiuterà a riscoprire il bene per il prossimo. Il fine che si propone la mia “eresia emulativa” è quello di contribuire alla riattivazione di quella cura delle menti che è il compito della letteratura e delle scienze dell’animo da secoli; compito, però, di cui ultimamente sembrano essersi dimenticate, forse demoralizzate da una sempre più imperante superficialità. 

 1. SIAMO ANCORA QUA
 “Eh già, siamo ancora qua”. Per fortuna potrei rispondere così al mio lungimirante trisavolo. Nonostante la sua previsione sull’esplosione di un ordigno incomparabilmente potente, la Terra non si è ancora trasformata in un’evanescente nebulosa. Il globo non è esploso e gli umani ancora sopravvivono minacciati da virus e malattie. Se ciò non è successo dopo l’esplosione di ben due bombe atomiche e dei reattori nucleari di Černobyl' e Fukushima, forse possiamo ancora riporre un barlume di speranza nel futuro. Sicuramente non sarà un futuro roseo, tutt’al più marroncino, come la deiezione che mi viene in mente quando sento parlare del Pacific Trash Vortex o ne digito fatalmente le parole su Google

 Quasi sicuramente tra pochi decenni i miei nipoti vivranno in un mondo totalmente marrone, o forse nero, ma sfortunatamente non saranno possibili analogie col colore delle terre brune, piacevolmente scure, tanto ricche di humus e sorridenti alla vita. Il futuro lo immagino di un nero trash, appunto, di un nero spazzatura, il nero di sacchi di nylon insolitamente galleggianti alle Maldive. Forse non ci sarà più un luogo ameno in cui fuggire per sfuggire dalla “monnezza”. Da romano fiero, lasciatemelo dire così, tanto perché il tema spazzatura non riguarda assolutamente i romani, sicuramente non soltanto per l’incuria delle pubbliche amministrazioni, ma anche e soprattutto per la selvaggia scelleratezza di gran parte dei cittadini. Il dialetto, comunque, rende con maggior efficacia l’amarezza di una previsione che più che di previsione sa di certezza, seppur come idioma, il mio, sia molto lontano dalla santa lingua del mio lontano parente. 

 Nonostante tutte queste belle premesse però, forse possiamo ancora fare qualcosa. Certo è, tuttavia, che siamo parecchio in ritardo. Convincere Trump ad aderire alla “Cop21”- e magari a tenersi anche in tasca le armi, e in gola qualche infelice esternazione – sarebbe già stato un gran bel passo avanti, così come lo sarebbe praticare una campagna informativa in grado di far tacere una volta per sempre i negazionisti del cambiamento climatico. Sono quasi più deleteri dei terrapiattisti, non so se più o meno dei nomask. Ora vi starete chiedendo chi sia il vostro interlocutore testuale, e forse anche chi fosse il suo lungimirante trisnonno, fortunatamente non indovino. Sono Matteo Cosini, come quel Zeno di cui forse avrete sentito parlare. Sarei curioso di sapere il numero esatto dei lettori che avrà annoiato con quel suo dannato vizio del fumo, dopo che il Dottor S. ne pubblicò le memorie. Mio nonno - trasferitosi a Roma nel secondo dopoguerra - mi raccontò di come Zeno, suo nonno, gli avesse raccontato, un giorno, di essere stato uno di quei primi eletti che ebbero il privilegio di sperimentare l’inutilità di quei “super costosi strizzacervelli”. 

 Gli parlò naturalmente della pubblicazione traditrice del dottore - quella che alcuni hanno letto e conoscono - e di un diario che avrebbe voluto inviargli in risposta per mostrargli quanto fosse inutile la sua cura - quasi si vergognasse o temesse di congedarlo con una semplice lettera direttamente rivolta a lui, ma del resto era un uomo fatto di numerosi picchi di autoassoluzione e di rarissime impennate di dignità -, ma che poi era sfortunatamente andato perduto nel suo trasferimento conseguente ai disordini della guerra. Non lo aveva più ritrovato. Mio nonno mi aveva più volte riferito di come Zeno la pensasse in materia di psicoanalisi, ma per me, fortemente interessato alla disciplina, poter leggere senza filtri il pensiero di uno tra i primi uomini a sperimentarla sarebbe stato un privilegio senza pari. Questa storia mi aveva sempre affascinato, così cinque anni fa decisi di tentare l’impossibile: ritrovare quel diario. 

 Partii alla volta di Trieste con baldanzosa speranza e per ironia della sorte lo ritrovai sugli scaffali impolverati del sottoscala di un’antica biblioteca, non molto lontana da quella che era stata la vecchia casa di Zeno, abbandonata durante il conflitto. Inizialmente non credetti a quel che avevo fra le mani. Non potevo credere di esser stato così fortunato, ma dopo poco dovetti convincermi che si trattava proprio di quel “famoso” e vagheggiato manoscritto. Non è sempre vero che la fortuna premia gli audaci: purtroppo o per fortuna queste arcaiche formulette che tanto ci piace menzionare, spesso nella più totale acriticità, alle volte non hanno affatto ragione. Il mio professore di lettere del liceo cercava spesso di inculcarmelo nella testa. A distanza di anni finalmente lo ho capito, e di questo lo ringrazio. Non ho mai capito, però, chi realmente fosse: era una persona impenetrabile e apparentemente anaffettiva. Sembrava che stabilire delle relazioni per lui fosse doloroso: si esponeva per poi ritrarsi, le sue parole giocavano quasi a nascondino, avevano lo stesso rumore delle carte quando il mazziere le mescola con insistenza. Avere una conversazione con lui era proprio questo, mescolare le carte all’infinito e non capire il senso di un gesto così insistentemente reiterato, o forse capirlo dopo giorni e giorni di autoriflessione. Insultava chiunque non riuscisse a cogliere la bellezza del significato esatto delle parole; odiarlo mi ha permesso di imparare tanto. 

 Il fato, comunque, quel giorno volle premiare proprio il mio impegno, o forse volle semplicemente che molte parole fallaci avessero la possibilità di esser smentite. La mia gita triestina non fu sgombra di imprevisti, ma la bora e la totale mancanza di orientamento in una città mai visitata prima non mi impedirono di portare a buon fine la mia ricerca. Soggiornai ivi svariati giorni, girai in lungo e in largo per isolati interi, da Viale Gabriele D’Annunzio a Via Carnaro, da Piazza della Borsa alla Cattedrale di San Giusto Martire passando per Piazza Unità d’Italia. Percorsi ripetutamente, per ironia della sorte piuttosto sconsolato, Viale Campi Elisi. Percorrendo e ripercorrendo quelle strade pensai più volte che sarei morto senza poter mai ritrovare il desiderato scartafaccio. Nonostante i chilometri macinati della casa di Zeno ancora non vi era alcuna traccia. Qualunque collegamento che cercasse di riannodare i miei confusi ricordi, risalenti ai racconti del nonno, veniva brutalmente stroncato dalla fatica o dall’ansia. Si trattava però di un’ansia abbastanza controllata, semplicemente quella che risveglia negli animi la volontà. Da piccolo ne soffersi molto, con gli anni ho invece imparato a tenerla a bada. Parlo naturalmente dell’ansia da prestazione e di quella che deriva dal timore di essere inadeguati, per sconfiggere l’ansia che è figlia dell’ipocondria il discorso è molto più complicato. Sfortunatamente la pandemia lo ha dimostrato. Se però il mio percorso verso l’accettazione di me stesso vi interessa, continuate a seguire la mia storia. Più avanti vi spiegherò bene come sono andate le cose e forse potrò aiutarvi ad assaporare l’ebrezza che deriva da un senso di assoluta fierezza, quella che nasce dalla mollica di bene che, prima o poi, si inizia a nutrire per sé stessi. Fortunatamente mi imbattei, quel freddo giorno di dicembre in cui le chiome degli alberi sembravano lucidare l’asfalto, in una traversa di Via Brigata Sassari, percorsi completamente la strada e mi ritrovai in Via Alessandro Lamarmora, davanti alla Biblioteca della Società Istriana di Archeologia, sita al civico diciassette. Poco dopo girai lo sguardo molto più a destra, verso l’inizio della via, al civico numero cinque, quasi fossi una marionetta pilotata dal fato, in quell’occasione mio amico: mi si accese improvvisamente nella mente una scintilla che aveva piuttosto le sembianze di una cometa. Corsi indietro all’impazzata. Mentre correvo ricordai di colpo le accurate descrizioni del nonno; evidentemente le avevo nascoste in modo eccellente in uno sperduto anfratto della mia mente, come gli scienziati nascondono le idee prima di arrivare ad una scoperta: il portone imponente di acciaio rivestito con legno di noce, i maniglioni a forma di pipa, le pietre di inciampo dorate, prefigurazioni inconsapevoli di un male banale ma tanto più efferato di quello fino ad allora conosciuto, quel male che avrebbe iniziato a sconvolgere l’Europa verso la fine del ’39.

 Ogni cosa corrispondeva al contenuto delle serali e quotidiane narrazioni del nonno Gianni, che si era spesso recato a trovare Zeno in compagnia del padre, sin da quando era piccolissimo. I due si presentavano a casa sua in veste di socio in affari accompagnato dal suo curioso e giovane figliuolo. Si chiudevano per ore a conversare allegramente nello studio del Cosini, segnato sulle pareti da miriadi di date, infinite U ed S puntate e da un nauseante odore di fumo. Naturalmente la moglie Augusta non sapeva assolutamente che l’avventura extraconiugale con Carla non era stata affatto improduttiva. Forse aveva avuto negli anni il presentimento che il marito coltivasse segretamente una relazione, ma la sua tranquillità borghese, a tratti simbolo di grande salute, sovente sintomo di feroce malattia non diagnosticata, gli aveva sempre impedito di scavare più a fondo.

 Cosa mai può essere, infatti, la tranquillità borghese, se non l’attitudine culturalmente forzata a rifuggire ed evitare domande esistenziali e interrogativi scomodi? Cosa mai può essere, se non una forma situata di adattamento di quella forza auto-conservativa, ontologica ed ereditariamente trasmessa che in taluni contesti inibisce l’orgoglio e la dignità? Si trattò, dunque, o forse più semplicemente, di una salute malata che mai armò gli occhi pur di non far dolere il cuore. In alcuni momenti avrei voluto che la mia prima progenitrice fosse stata proprio Augusta, magari avrei ereditato da lei una piccola parte della sua immensa tranquillità. Essa forse mi avrebbe reso più indifferente al senso e al destino del cosmo, del tempo, della simultanea caducità delle cose, e anche al passato delle consapevoli maschere nevrotiche che spesso incontro per strada, consapevoli perché perfettamente consce della propria infelicità. Se c’è una cosa che le mie infinite elucubrazioni mi hanno insegnato, è proprio il fatto che al mondo esistono distinte categorie di persone infelici. Penso di averne riconosciute, per il momento, almeno due. Ci sono quelle consce della propria infelicità e incapaci di volersi bene, sempre preoccupate di non fare ciò che ai loro occhi potrebbe sembrare un estremo gesto di amore per sé stesse, e quelle inconsapevoli. Infelici ma inconsapevoli. Si tratta di quelle persone che, invece, si vogliono talmente tanto bene da non riuscire nemmeno a pensare alla categoria di infelicità. E’ un grande paradosso: sono persone profondamente infelici, ma incapaci di chiamare l’infelicità col suo nome.

 Mi è sempre piaciuto interrogarmi sull’essenza delle persone turbate, sui loro destini, sulla discrepanza tra quello che sono e quello che mostrano. Molto spesso mi sono fermato su scale o panchine ad analizzare la frenesia del genere umano, quasi come se lo sgomento altrui, il sapere o l’immaginare che anche altri forse soffrissero o avessero a lungo sofferto nella vita, potesse a volte compensare la pace interiore che non riuscivo a trovare, e che forse non troverò mai completamente. La mia ipersensibilità empatizzante, però, ha sicuramente sempre avuto come rovescio della medaglia un forte, cosmico, indeterminato senso di insofferenza, per le cose e anche per alcune persone: sicuramente non si tratta del senso di insofferenza che rende grandi i grandi, piuttosto di quello che rende inetti quelli che in fondo nascono tali, o coloro che peccano di hybris; resta il fatto che, seppur in fondo mi piaccia, soprattutto in quei momenti in cui mi permette di cogliere e ammirare -rispettandola - la bellezza della natura, spesso avrei preferito non provarlo, per godermi di più la leggera sacralità di certi istanti.

 Il mio demone è sempre stato questo: una dimensione antropologica di insoddisfazione in me sempre più spiccata che in altrui, accompagnata da introspezioni pervasive e da un impetuoso e imperioso senso della giustizia, ardente come il vapore che mi acceca gli occhi quando quotidianamente il suo adempimento viene meno. Sono un inguaribile sognatore cui fortuiti e sfortunati accidenti - fortunatamente non gravi, perché solo alla morte non c’è rimedio - hanno frustrato quell’insciente e travolgente voglia torrentizia di cambiare il mondo, rendendola sempre più forte, e cagione di smisurati sogni ad occhi aperti, con le guance bagnate. Mi capita spesso di farne, soprattutto mentre guido, mentre mi sento libero, quando ho la possibilità di sognare. Molti sostengono che il tempo e l’età deviino gli sviluppi di quel torrente, segnandone tanti piccoli corsi laterali, meno impetuosi, meno debordanti. Non potendo negare l’autorevolezza degli anziani, spero di poter rappresentare, in futuro, un’eccezione alla regola, tanto più perché combatto quotidianamente con me stesso per cercare di serbare la coerenza che il mio spirito da santo inquisitore pretende. Davanti a quel portone iniziavo finalmente a ricongiungere i pezzi di una storia lontana. Il portiere, un uomo calvo e tarchiato, sulla sessantina, mi riferì che la vecchia casa al primo piano, dove Zeno aveva abitato per anni, era ormai disabitata da moltissimo tempo. Considerata la sua decrepitezza nessuno la aveva più comprata e, non essendone mai stata reclamata la proprietà, era stata acquisita dal condominio, in attesa che prima o poi venisse venduta, per poi dividerne gli introiti tra i residenti del palazzo.

 Gli raccontai la mia storia e ne rimase molto colpito, ardente di curiosità; così, dato che era proprio il portiere a conservare le chiavi dell’appartamento, accettò di accompagnarmi in un’innocua perlustrazione. Mentre salivamo le scale il buon uomo mi riferì che probabilmente era stato proprio il mio trisavolo l’ultimo ad abitarvi. In effetti sapevo che l’abitazione era stata lasciata da Zeno durante il primo conflitto mondiale, con l’intento di trasferirsi assieme ad Augusta in un tranquillo e quasi disabitato paese della Grecia-dove morì dopo pochi anni per un enfisema polmonare-, il padre del nonno Gianni era invece morto in battaglia, e quest’ultimo si era trasferito a Roma assieme alla madre, come ormai sapete anche voi, nel secondo dopoguerra.

 Zeno non aveva altri eredi, legittimi e non, che potessero o fossero interessati ad acquisire la proprietà e ad occuparla -poiché anche i figli legittimi e pienamente riconosciuti, quelli avuti da Augusta, avevano avuto con lui un rapporto fatto di amore e odio, come quello che lo stesso Zeno aveva avuto col padre, ma in questo caso fortemente sbilanciato, e con il piatto dell’odio decisamente più pesante, tale che, morto il Cosini, essi non si erano nemmeno recati al funerale- e i parenti di Augusta non se ne erano mai preoccupati, forse già sufficientemente ricchi e soddisfatti delle ricchezze che lo stesso Zeno gli aveva fatto recuperare. Appena entrammo rimasi stupito dal perfetto stato della misera mobilia, che contrastava con l’orrore del giallore dei soffitti e delle macchie di muffa sulla carta da parati, e soprattutto con un puzzo di fumo nauseabondo e calcificato che il tempo non era ancora riuscito a sconfiggere. Il portiere mi riferì che una volta alla settimana veniva spolverata e lucidata dalla donna di servizio incaricata di pulire i pianerottoli e le scale del palazzo. I mobili mancanti, quelli di maggior pregio, erano stati venduti per creare un fondo-cassa comune. Quelli che restavano, comunque, non erano affatto disprezzabili.

 Se si può accusare Zeno di aver avuto prepotenti manie autoassolutorie -quelle che in fondo assumiamo tutti come compagne quando nascondiamo ad arte nella coscienza la nostra colpevolezza- non lo si può accusare affatto di non aver avuto buon gusto. Il letto a baldacchino di legno di mogano restava lì, nella stessa camera da letto-per il resto vuota-, da ormai cent’anni, a segnare con il suo peso lo scricchiolante parquet. Della cucina non rimaneva granché: gran parte era stata restaurata dal più abile antiquario della città, per poi essere rivenduta al ricco proprietario di un castello veneto. Ne restavano soltanto un tavolo di noce finemente intagliato, sorretto da gambe rinforzate con massicce cerniere di ferro battuto, le sedie e qualche cassapanca, dove presumibilmente venivano conservate le vivande. Il salone, illuminato da grandi finestroni, era occupato da due grandi canapè chiazzati e ammuffiti, e da un variopinto arazzo persiano di seta e lana cucito a mano, anch’esso in pessimo stato. Mi colpì il segno lasciato sul muro da un’antica libreria. La mia guida mi riferì che era crollata da circa un anno sotto il peso dei libri che vi erano stati riposti, terrorizzando al pari di scosse di terremoto gli inquilini al pian terreno, e che questi erano stati donati dagli stessi condomini alla biblioteca sita al civico diciassette. La visita non durò più di un quarto d’ora, del resto non vi era molto da visitare o osservare. Nel viaggio in treno e nel mio lungo peregrinare avevo sperato e immaginato che quel diario fosse sempre rimasto lì, in quella vecchia casa, dimenticato da Zeno in una qualche libreria. Questa in effetti mancava, ma la donazione dei libri alla vicina biblioteca non era affatto una pista da sottovalutare.

 Mi congedai dal mio fido accompagnatore con la promessa -mai rispettata- di ripassare a trovarlo se mai avessi ritrovato l’oggetto del mio desiderio. Non che, in verità, la strada da fare fosse molta. Usciti dal portone non bisognava percorrere più di cento metri e volendo, ormai, avrebbe anche potuto accompagnarmi, ma era trattenuto da un impellente servizio. Mi precipitai subito alla biblioteca. All’ingresso trovai di guardia un anziano bibliotecario, non a caso un professore di archeologia -come lui steso mi riferì- molto magro, con la pelle raggrinzita e probabilmente ingiallita dal fumo, una folta chioma bianca e degli occhialetti molto spessi. Era schivo e diffidente, forse per via del mio accento, o magari anche perché a prima vista non mi riteneva affatto degno di varcare la sacra soglia di quel tempio di erudizione. Raccontai anche a lui la mia storia, e naturalmente gli chiesi se sapesse che fine avessero fatto quei libri donati dal palazzo all’inizio della via. Mi rispose sprezzante che nemmeno uno, tra quelli, era in linea con l’indirizzo e gli interessi specifici della biblioteca, e per non buttarli, semplicemente per repulsione erudita a compiere quel che chiamò “uno scempio di carta”, erano stati tutti deposti, senza nemmeno esser spolverati, in grandi scatoloni sugli scaffali del sottoscala. Con una piccola donazione mi diede addirittura il permesso di visionarli, purché smettessi di importunarlo e di sottrarlo ai suoi studi. Starnutendo decine di volte svuotai uno ad uno i dieci scatoloni in questione.

 Le copertine di quei libri mi sembravano tutte così terribilmente uguali, specialmente perché erano stati foderati, presumibilmente da Augusta -con quel suo prepotente senso borghese della praticità- con una pellicola molto scura, la quale però non era bastata a salvarli totalmente dall’usura del tempo. La penombra e la timida lampadina del sottoscala di certo non mi aiutavano. Al ché decisi quantomeno di sfogliare velocemente le pagine di ognuno di essi. Erano due o tre centinaia, così, anche solo per completare questa piccola operazione, dovetti tornare il giorno seguente. Le mie scarsissime conoscenze di paleografia - non che in questo caso servissero a molto - mi permisero di capire che tra tutti quei libri nemmeno uno era scritto a mano, ma tutti riportavano i caratteri delle più svariate tipografie. Ergo, se l’informazione che avevo avuto corrispondeva a verità, cioè che Zeno aveva osato svergognare il dottore con la penna, quel suo audace prodotto intellettuale non era certo tra quelli che avevo visionato. Sconsolato mi accinsi a rimettere tutto al suo posto, ma improvvisamente mi accorsi che in verità qualcosa mi era sfuggito. Sul fondo di uno dei profondi scatoloni era rimasto un pacco di carta scura che si era mimetizzata con il colore marroncino dello stesso. Non so se la colpa sia stata della penombra o della mia galoppante miopia, non è importante, né per me né per voi. Strappai ferocemente la carta e rinvenni un diario con una copertina nera, non troppo ferito dall’umidità.

 Insieme a questo vi era un bigliettino giallognolo con su scritto “Empfänger: Lieber Doktor S., Wien, Gumpendorfer Straße 13”. Non ho mai saputo il tedesco e sinceramente non ho alcuna intenzione di impararlo, ma intuitivamente capii in un baleno che si trattava di un indirizzo. Quando apersi il diario e nonostante la pessima grafia riuscii a leggere le prime due righe -“L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima.”-, realizzai subito che finalmente avevo trovato quel che cercavo da giorni. L’urlo di gioia che istintivamente emisi destò lo sdegno degli studiosi al piano di sopra e la reazione rabbiosa del professore, il quale scese con pupille fiammeggianti e mi spinse fuori dalla biblioteca senza nemmeno darmi il tempo di finire di riordinare gli scatoloni; non impedendomi, però, di sottrarre dai suoi penetrali quel che da tempo andavo cercando e finalmente avevo trovato. La mia gioia era incontenibile, tanto più perché il libero prodotto della mia fantasia era corrisposto alla più incredibile delle realtà: Zeno non aveva affatto perduto il suo diario, non lo aveva proprio portato con sé, esso era rimasto per quasi cent’anni nella sua vecchia casa, lì dove chiunque, per puro caso, se ne sarebbe potuto impossessare. L’aspetto più incredibile di questa vicenda però, è che a trovarlo fui proprio io, il tris-nipote del Cosini, una di quelle poche e fortunate persone che, adducendo come esempio la propria vita, avrebbe potuto smentire il suo terribile e ingiusto giudizio sulla psicanalisi; frutto, secondo me, non tanto della sua ignoranza, ma della turpe natura dei tempi e della debolezza della neonata disciplina, la quale allora non avrebbe sicuramente potuto far nulla per impedire la deriva della Storia, ma che oggi, dopo più di un secolo, rimane ancora saldamente aggrappata ai suoi baluardi di timidezza, non riuscendo a dimostrare fino in fondo quanto in realtà sia fondamentale per salvare delle vite.

Alessandro Di Mattia



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Prima foto: Gerd Altmann, Friburgo, Germania
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Terza foto: Gerd Altmann, Friburgo, Germania
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