Gli Scenari
Federico II e Melfi
Si trattò di un rapporto davvero privilegiato. Federico II soggiornò tantissime volte a Melfi, città che prescelse come luogo della sua residenza estiva. Nell’agosto del 1221 papa Onorio III convocò nella città un concistoro, che vide la partecipazione delle più alte cariche laiche ed ecclesiastiche del regno. L’adunanza fu motivo di incontro tra il Papa e Federico II in un momento di grande tensione, in vista della imminente partenza per la crociata.
Sin dall’inizio del suo regno, Federico II ebbe come modelli Augusto e Giustiniano, i due massimi legislatori di Roma e di Bisanzio. A Melfi istituì una “scuola di logica”, al fine di preparare i dignitari al grande evento delle “Constitutiones Melphitanae”, che emanò nel 1231. La codificazione, la più importante dopo quella di Giustiniano, riorganizza tutta la materia politica del Regno in un corpus legislativo unitario e moderno, armonizzando il diritto romano con quello germanico.
La scelta di Melfi non fu fortuita. Federico II, che aveva propositi ben precisi, fra l’esoterico splendore di Palermo e i castelli svevi delle brume foreste teutoniche, scelse per le sue Costituzioni, la Caput Apuliae dei suoi avi normanni.
Il codice federiciano, tradotto anche in greco, suscitò la reazione del Papa che ritenne l’atto un abuso da parte di Federico II, impossibilitato a legiferare, per di più in materie di pertinenza della Chiesa (matrimonio ed usura), ritenendolo suo suddito. Ancora una volta la scomunica fu inevitabile.
Federico II, vero sovrano illuminato, fu amante delle arti, della letteratura e delle scienze, favorì gli studi e creò uno stato autonomo anche se assolutistico.
A Melfi egli allocò la sede della “Camera del Regno”, dell’Archivio e della Corte dei Conti. Ed ancora, uno fra i più bei giardini zoologici, nel quale sarebbe apparsa, per la prima volta in Europa, la giraffa, dono del Sultano, a conclusione della Crociata.
Gli scenari
Melfi, è ancora racchiusa entro la cinta muraria, dominata dalla mole imponente del Castello. Giace su una collina che le ha conferito il carattere di fortezza militare e quel fascino tipico di un antico borgo medievale. Severa nel suo impianto urbano risalente al periodo normanno-svevo, la città offre emergenze architettoniche ricche di storia, contornate dalle bellezze naturali del Vulture e dei Laghi di Monticchio.
Città delle Costituzioni di Federico II e antica capitale normanna, Melfi fu anche sede di cinque concili e di un concistoro papale. L’etimologia del nome deriverebbe dal fiume Melfia, di cui fa menzione Plinio, che scorre ai piedi della collina su cui sorge. Incerta è l’origine della città. Il primo insediamento risalirebbe all’età del ferro ed ebbe un notevole sviluppo trasformandosi da semplice borgo indigeno a punto di incontro delle civiltà lucana, dauna e sannita. Rilevante doveva essere, anche, l’insediamento del V-IV secolo a.C., come testimoniano le necropoli di Chiuchiari, Cappuccini e Valleverde. In quest’ultima sono state rinvenute le ceramiche decorate in rosso di scuola locale, detta del “Pittore di Melfi”. Mentre, in contrada Pisciolo, in alcune tombe, sono venuti alla luce oggetti di lusso e preziose suppellettili, che confermano la ricchezza del periodo.
L’ipotesi più attendibile circa le origini della Melfi medievale é quella greco-bizantina. Guglielmo Apulo fa risalire la fondazione della città al 1018, in un programma di ristrutturazione difensiva di tutta la Puglia voluto da Basilio Bojoannes. La grandezza e l’importanza storica di Melfi ebbe però inizio con i Normanni, i quali, arrivarono nel Sud intorno al 999, al comando di Giliberto e Rainulfo Drengot, trovando un regno politicamente frammentato e disunito. Ciò gli permise di tentare la costruzione di un regno unitario. Melfi, all’epoca dei Normanni, era già una fiorente città di frontiera le cui fortificazioni erano ritenute inferiori solo a quelle di Bari.
Nel 1037, Nicola, arcivescovo di Canosa, ne aveva elevato la Chiesa a vescovado. Nel 1041 inizia la dominazione normanna di Melfi: nell’autunno del 1042, i nuovi conquistatori convocarono nella città un parlamento generale, nominando Guglielmo Braccio di Ferro primo Conte di Puglia e dividendosi le terre conquistate. Melfi fu dichiarata città-comune. Ogni capitano vi costruì il proprio palazzo, facendo di essa la capitale della nuova contea. Giacché il diritto feudale stabiliva non poter essere il conte figura indipendente, occorreva un sovrano feudatario. Il riconoscimento fu ottenuto prima da Guaimaro V, principe di Salerno, e poi dall’imperatore Enrico III; infine da papa Leone IX. Il pontefice cercò di opporsi all’espansione normanna, ma fu sconfitto a Civitella. Condotto a Melfi come prigioniero, ne legittimò i domini, mentre i nuovi conquistatori si inginocchiarono al suo cospetto chiedendo perdono. A Roberto, detto il Guiscardo, si deve il potenziamento delle mura di Melfi, la prima cattedrale e la dotazione di rendite al vescovado.
Nel 1059 il papa Niccolò II, convocò il primo Concilio di Melfi con lo scopo precipuo di sottrarre la Chiesa al potere tedesco e ridarle quella libertà d’azione ormai perduta. D’altra parte essa riconoscerà ai Normanni la loro identità di popolo libero ed autonomo. Pertanto saranno tolte le scomuniche, inflitte dal precedente papa Leone IX. Roberto il Guiscardo è investito Duca di Puglia e Calabria, un vero passaporto alla conquista dell’intero meridione. Il ruolo di Melfi, quale retroterra della conquista, è ribadito dalla convocazione nella città dei successivi quattro Concili. Di particolare importanza, il terzo, che venne proclamato nel 1089 da Urbano II. La rilevanza di quest’assise è nell’impostazione di un diritto canonico unitario, nella condanna del nicolaismo e nell’obbligo del celibato per il clero.
Ed é a Melfi che istituisce la “Lega Santa” e dà inizio alla predicazione per la Prima Crociata. Nel quarto Concilio (1101) papa Pasquale II concede a Melfi il privilegio di dipendere direttamente dalla Diocesi di Roma ed ai Vescovi di essere consacrati in perpetuo dal Pontefice. Nel 1130, si tiene un gran parlamento, durante il quale Ruggero II viene nominato “Re di Sicilia e Duca di Puglia e Calabria”.
Di fronte alla politica assolutistica ed accentratrice di Ruggero, la città, che vede spostare definitivamente il centro del potere politico a Palermo, più volte si ribella.
Ai Normanni succedettero gli Svevi e Federico II fece di Melfi una delle capitali amministrative del Regno.
L’età federiciana fu per la città il periodo di massimo splendore. Con la fine degli Svevi, Melfi assunse un ruolo di semplice spettatrice nelle vicende del Regno. Nel 1266 subentrarono gli Angioini con Carlo I D’Angiò, il quale adottò una politica repressiva. Nel 1350, gli Acciaioli diventarono i primi feudatari della città, mantenendone il possesso fino al 1392. Succedettero i Marzano e i Caracciolo, alla corte dei quali si riunivano letterati ed artisti. Proprio con i Caracciolo, Melfi riacquistò splendore e vennero completate molte strutture urbane: durante questo periodo la città era conosciuta come la “Napoli seconda”. Nel 1528, in pieno conflitto tra Spagnoli e Francesi per il possesso del regno di Napoli, Melfi venne saccheggiata dall’esercito francese guidato da Lautrec.
Dopo la riconquista spagnola, fu affidata al principe d’Orange. In seguito Carlo V di Spagna donò la città, col titolo di principe, all’ammiraglio genovese Andrea Doria: è per Melfi l’inizio del pieno servaggio feudale caratterizzato da una condizione di forte emarginazione.
Rimase feudo dei Doria fino al 1806 quando Gioachino Murat abolì il feudalesimo. Tali leggi abrogative e la soppressione degli ordini religiosi, portarono all’ascesa del ceto borghese e mercantile. La decadenza della città fu segnata anche da fenomeni quali la peste e terremoti che apportarono danni e gravi perdite. Terribili quelli del 1694, 1851 e 1930, che danneggiarono i monumenti maggiori e l’edilizia minore, cancellando tracce notevoli della storia e dell’arte locale.
Il Castello
Costruito sulla cima nord-occidentale della collina su cui sorge la città, domina con la sua mole imponente tutto l’antico abitato. La possente cinta con torri e il fossato, suggeriscono una vocazione difensiva che fa conservare al maniero un fascino originario. Edificato dai Normanni tra la fine dell’XI e gli inizi del XII sec., nel corso delle varie dominazioni, ha subito rifacimenti ed ampliamenti, che hanno reso non facile un’attenta lettura delle strutture e delle opere murarie. L’insieme è di grande suggestione, soprattutto sul lato nord, dove le torri e la cinta muraria sembrano quasi aggrappate alla roccia e sono a picco sul sottostante fiume Melfia.
Il primitivo dongione normanno, ancora rilevabile nell’attuale corpo centrale, venne recuperato e rinforzato con torri angolari durante una prima fase d’intervento sul castello da parte di Federico II, databile tra il 1221 e il 1225. In previsione dell’importante Assise legislativa dell’estate 1231, il castello melfitano subisce un ulteriore intervento non più di mero carattere restaurativo, ma di vero e proprio ampliamento. Vengono innalzate tre nuove torri e l’imponente corpo di fabbrica rettangolare sottostante la Sala del Trono angioina e oggi nota come Sala degli Armigeri. In quest’epoca il castello di Melfi è sede della tesoreria e dell’archivio regio, nonché dimora estiva del grande imperatore, accogliendo tra le sue mura i personaggi più eminenti della politica e della cultura del tempo.
La mancanza di quella regolarità quasi geometrica che caratterizza i castelli federiciani, soprattutto all’indomani del ritorno dalla Crociata, va imputata, nel caso di Melfi, alla necessità di adattarsi alle opere preesistenti e all’impervia orografia del sito.
A partire dal 1269, e cioè solo tre anni dopo la battaglia di Benevento che sancì la fine degli Svevi, Carlo I d'Angiò ordina un nuovo vasto programma di interventi che interesseranno il maniero di Melfi per oltre un decennio. Il castello normanno-svevo venne notevolmente potenziato con la realizzazione di una nuova cortina muraria intervallata da torri rettangolari e pentagonali, del circuito dello spalto e dell’ampio fossato. In quest’epoca l’ingresso al castello si apre ad ovest, in corrispondenza dell’inizio del fossato, proprio dove le mura urbane si vanno a saldare alle fortificazioni del maniero. Il portale a tutto sesto, dotato di saracinesca, era preceduto da un ponte levatoio; ad ulteriore difesa dell’ingresso, una caditoia fu realizzata sulla Torre del Leone.
La trasformazione del nucleo centrale del castello in palazzo comitale ebbe inizio con i Caracciolo nel XV sec. per completarsi con i Doria durante i successivi tre secoli. Sempre ai Doria si deve la realizzazione del nuovo monumentale ingresso che si apre a sud verso la città. Un ponte a tre fornici in pietra, una volta levatoio, supera l’ampio fossato e, attraverso un portale bugnato in pietra bianca, permette l’accesso nel Cortile Principale su cui prospettano il Palazzo Doria e la cappella gentilizia del XVI secolo. Iniziando dall’ingresso attuale, in senso orario, le torri visibili sono: Torre dell’Ingresso, a pianta rettangolare; Torre dello Stendardo o dei Cipressi a pianta pentagonale; Torre della Secretaria o della Terrazza, a pianta rettangolare; Torre del Leone o Torre Ovest a pianta pentagonale; Torre dei Sette Venti o dell’Imperatore a pianta rettangolare; Torre senza nome di cui restano solo i ruderi; Torre di Nord-Est a pianta rettangolare; Torre delle Carceri o di Marcangione a pianta rettangolare; Torre della Chiesa a pianta rettangolare; Torre dell’Orologio a pianta pentagonale. Questa è visibile appena superato il ponte, a destra, e costituisce il punto più avanzato della cerchia difensiva angioina. Di valore architettonico, una delle finestre della Sala del trono, la bifora della Torre di Marcangione ed il capitello del bastone intorno a cui si snoda la scala a chiocciola posta fra la torre delle Carceri e la torre Nord-Est.
Oggi il Castello ospita il Museo Nazionale Archeologico del Melfese.
Museo nazionale Archeologico del Melfese
Istituito nel 1971, per volere del conterraneo Massimo Pallottino, padre dell’etruscologia, Direttore del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, conserva ricchi ed importanti reperti. Essi, vanno dal VIII al III secolo a.C. e documentano in zona la presenza di popolazioni daune, sannite e lucane. Nelle tre sale a piano terra, a partire dalla prima, reperti risalenti al periodo arcaico, corredi funerari maschili e femminili in un periodo che va dall’VIII al VI sec. a.C. con sepoltura a fossa e deposizione del defunto in posizione fetale, tipica della civiltà dauna. La ceramica, in questo periodo è acroma o appena decorata con figure geometriche.
Frequente è la presenza di vasi detti “olle” in cui erano riposte vivande che dovevano servire al defunto nella nuova vita e degli “attingitoi” che avevano la funzione di mestolo. A seguire reperti del V secolo a.C.. Di questo periodo sono le ceramiche a figure rosse su fondo nero di chiara influenza greca. Notevole importanza hanno i reperti di due tombe ipogee rinvenute nella zona di Melfi. Dalla ricchezza dei corredi, formata da una vasta gamma di utensili in bronzo di fattura etrusca, la presenza dei resti di due carri da parata, che denotano lo status principesco dei defunti e la particolare presenza di un rython, boccale a forma di testa di cavallo usato nei rituali. La figura del cavallo è molto frequente nelle rappresentazioni del popolo dauno, che avevano il culto di Diomede, eroe della mitologia greca.
Nella terza sala sono raccolti reperti provenienti dalla tomba di un bambino di alto rango. Lo testimoniano la ricchezza dei monili e la presenza di un cratere “Attico”. Al piano superiore, sala museale con la ricostruzione di una sepoltura a ipogeo, rinvenuta nella zona di Lavello, primo esempio di tomba a camera dipinta.
Ed ancora la “tomba degli sposi” con tema mitologico di Eos (dea dell’Aurora) che rapisce Kephalos, presente sia sulla cimasa del candelabro in bronzo della sepoltura femminile, che sul cratere di quella maschile.
La frequenza nelle rappresentazioni, di divinità, eroi e figure allegoriche denotano l’influenza della mitologia greca, per quanto riguarda il culto dei morti. Nella sala seguente, di particolare rilevanza, fodero di spada, su cui è incisa una scena di caccia al cinghiale. In quella successiva un capitolo nuovo nella storia dell’archeologia locale. Pissidi del 340 a.C. decorate dalla scuola locale del cosiddetto “Pittore di Melfi”. In precedenza i reperti vascolari erano d’importazione o di imitazione greca, come si evince nello stesso museo. Nella settima sala la presenza di crateri e skiphos su cui sono rappresentate scene dionisiache, testimoniano l’usanza del “Simposio”, banchetto destinato esclusivamente agli uomini in cui, sotto l’ebbrezza del vino, rappresentato da Dionisio, veniva messa a nudo la vera natura umana. Segue sala con raffinati reperti (monili in oro, argento e ambra) rinvenuti in una tomba principesca femminile.
Di notevole importanza il ritrovamento di tombe ipogee nel territorio tra Lavello e Canosa, essendo quest’ultima sede di una vasta produzione di ceramica, detta “canosina”, che alla brevità di vita contrappone una lavorazione ricca di estro figurativo. Più ornamentale che funzionale con decori dai colori molto vivaci: dall’azzurro, all’ocra, al rosa. Nella nona sala tomba principesca, ritrovata a Lavello larga presenza di questi vasi, alcuni dipinti. Tema ricorrente della decorazione, una biga guidata da una figura alata, metafora del trasporto del defunto nel suo ultimo viaggio. Da notare la presenza di un’armatura anatomica con elmo a bottone e paraguance d’influenza romana, e di vasi privi di fondo, usati per le offerte ai defunti e di un bacile decorato. A seguire sala con la presenza di una tomba, che accomuna la sepoltura di due donne, una in posizione fetale, secondo il rito dauno, l’altra in posizione supina, secondo il rito sannita. A testimonianza di un periodo di convivenza fra queste due civiltà. Nella sala successiva vediamo l’evoluzione della tomba a camera con la presenza di nicchie destinate ai vari componenti della famiglia. Di particolare curiosità, una serie di giocattoli in terracotta, provenienti da una tomba infantile, i tintinnabula. Il percorso prosegue con un’interessante vetrina contenente anfore da trasporto e oggetti per lo sport ed il tempo libero: strigili, stili in osso e astragali (progenitori degli odierni dadi). Alcuni askos, listati con decorazioni vegetali di colore rosa, esposti nella vetrina della stanza successiva. A seguire, una serie di interessanti reperti, quali unguentari in alabastro, statuette votive d’influsso sannitico e un’askos, destinato al filtraggio del liquidi. Sul vaso, significativa decorazione centrale in cui è rappresentata la scena di un corteo funebre, con simbologie e personaggi che assommano tre civiltà e loro relative influenze (dauna, greca e romana).
Il percorso museale nel piano superiore si conclude con una prima testimonianza del processo di romanizzazione, in atto nell’area, con la presenza di una statua in marmo di Afrodite.
Per finire,a piano terra, nella torre dell’orologio, sarcofago di epoca romano-imperiale, rinvenuto nel 1856 in località Albore in Piano di Rapolla. Presenta due impostazioni scultoree: greca e romana. La cassa è importata dall’Asia Minore, esemplare opera d’arte tipica del periodo greco - ellenistico, evidenziato dalla sua struttura architettonica, dall’incisività del panneggio, dalla plasticità del modellato e dagli altorilievi che rappresentano divinità ed eroi della mitologia greca. Il coperchio, sicuramente lavorato in officine locali del marmo, presenta una nobildonna romana, distesa su una parte di triclinio.
Dai resti di scritte rinvenute si è dedotto trattarsi del mausoleo sepolcrale di Emilia Sauro figlia di Cecilia Metella e la cui committenza potrebbe ascriversi a Silla (marito di Cecilia) o Pompeo il Grande (consorte di Emilia). A convalidare la tesi il rinvenimento, in anni recenti, nello stesso luogo, di resti di una sontuosa villa romana con la presenza di terme, dotate di impianto di calidarium, tiepidarium e frigidarium.
Di questo sarcofago, il grande viaggiatore François Lenormant, annota che “financo Roma non ha di eguali”.
Cinta muraria
Corre per una lunghezza di circa quattro chilometri a circondare quasi per intero il centro storico. Conferisce fascino e suggestione al castello in essa incastonato. Partendo da Piazza Abele Mancini e costeggiando i giardini pubblici, è possibile ammirare tratti di mura ben conservate. Ascrivibili al periodo greco-normanno-svevo devono la loro attuale sistemazione a Giovanni Caracciolo che, nel 1456-60, le rinforzò per far si che potessero sopportare l’attacco dell’artiglieria. In essa si aprivano quattro porte e due posterle: Calcinaia, Bagno,Venosina, Troiana, S. Antolino e S. Agostino. Ẻ in progetto restauro conservativo dell’importante monumento unico nel Meridione d’Italia, e costruzione di strada per la sua fruizione culturale e turistica.
Porta Venosina
E’ l’unico accesso antico alla città, sopravvissuto al sisma del 1851. Di origine normanna fu restaurata da Federico II, nel XIII secolo, che vi appose la seguente iscrizione:
"L’ANTICHITÀ MI HA DISTRUTTA, FEDERICO MI HA RIPARATA
MELFI, NOBILE CITTÀ DELLA PUGLIA
CIRCONVALLATA DA MURA DI PIETRA,
CELEBRE PER SALUBRITÀ DELL’ARIA, PER AFFLUENZA DI POPOLAZIONI
PER FERTILITÀ DEI SUOI CAMPI
HA UN CASTELLO COSTRUITO SU UNA RUPE RIPIDISSIMA
OPERA MIRABILE DEI NORMANNI".
Da essa faceva il suo ingresso in Melfi, proprio Federico II, con il suo corteggio quasi orientale, formato da dignitari, tesorieri, giureconsulti, Saraceni, cavalieri germanici, fanti di Puglia, harem, falconieri e fiere da serraglio. L’evento richiamava “grande affluenza di forestieri”.
La sua denominazione appare solo nel XV secolo, perché collegata con l’antica via Appia, che conduce a Venosa. Di stile gotico, ha un portale a sesto acuto con l’archivolto a toro scanalato sostenuto da capitelli a tronco di piramide rovesciata, ed è affiancata da due bastioni cilindrici del 1400 a rafforzamento delle capacità difensive. A destra dell’ogiva gotica è scolpito lo stemma di Melfi, il basilisco.
Porta Calcinaia
Porta più vicina al Castello, prende il nome dalla presenza di fornaci per la cottura della calce. Oggi si possono ammirare solo i ruderi. Nei pressi, palazzo doganale e antiche scuderie.
Porta Troiana
In onore di Troiano Caracciolo. Rimangono alcuni ruderi.
La Cattedrale
La Basilica - Cattedrale, dedicata alla Madonna, è già esistente nel 1076. Ad essa si affianca il maestoso campanile del 1153 voluto da re Ruggero II e realizzato dal maestro Noslo de Remerio, che, con i suoi 50 metri d’altezza svetta sui tetti della città come un faro della fede. L’edificio si colloca su un poggio, al limite del borgo alto-medioevale, a conclusione dell’antico percorso, una volta esterno alle mura, divenuto lungo la direttrice Cattedrale-Porta Venosina, l’asse principale della città normanna. Con l’Episcopio, il Seminario e altre entità ecclesiali, formava la “cittadella” del potere spirituale che si contrapponeva a quello del potere temporale, che ruotava intorno al castello. La chiesa subì notevoli danni durante il terremoto del 1694 e venne rifatta seguendo lo stile barocco. Solo il maestoso Campanile conserva l’impianto normanno: ripartito in quattro ordini, nel secondo sono presenti tre protomi leonine aggettanti. Gli ultimi due piani sono alleggeriti da splendide bifore con archi a tutto sesto sorretti da esili colonnine poggianti sui cordoni marcapiano. Di grande rilievo la bellissima decorazione bicroma a tasselli in pietra bianca e pietra lavica tipica del romanico normanno. La facciata dell’ultimo piano, rivolta verso il centro abitato, è decorata con due ippogrifi, assurti da Ruggero II a simbolo dei Normanni. La cuspide attuale è stata costruita a seguito del disastroso terremoto del 1851, sostituendo l’originaria cupola e i merli ghibellini, danneggiati dal sisma. Si tratta di una delle massime espressioni artistiche realizzate dagli “uomini del nord” in tutta l’Italia Meridionale. Alla possente austerità del campanile si affianca una facciata in pietra bianca in stile barocco, con tre portali. Essa si svolge su due ordini separati da un cornicione, entrambi decorati con lesene sormontate da capitelli compositi. Una serie di elementi decorativi e un finestrone con balaustra arricchiscono la facciata, la quale termina con un timpano, decorato con acroteri, sul cui vertice è collocata una croce. La Chiesa è a tre navate divise da due file di pilastri in pietra composita terminanti con cinque archi che sorreggono il soffitto centrale a cassettoni in legno intarsiato e dorato. Il pavimento, in marmo e pietre dure, riprende il motivo decorativo del soffitto con al centro lo stemma gentilizio del vescovo Petroni. Le navate laterali hanno una copertura con volte a calotta. Lungo la navata di destra troviamo: la Cappella del Battistero, la Cappella della Madonna di Nazareth con frontale in pietra vulcanica, la Cappella della Vestizione con trono. Nella parte destra del transetto, l’Altare di S. Gaetano con tela del Miglionico raffigurante il Santo implorante; la Cappella del SS. Sacramento con soffitto in stucchi dorati, altare barocco e maestoso arco trionfale in pietra lavica il cui archivolto è riccamente decorato con rosoni dipinti; l’Altare di S. Alessandro con il busto e le reliquie del Santo. Nella parte sinistra del transetto si susseguono: altare della Madonna Bizantina; altare della Madonna delle Rose; altare della Sacra Famiglia; nella navata di sinistra, l’altare della SS Trinità. La navata centrale è caratterizzata dall’altare maggiore in marmo policromo, da una balaustra intarsiata con marmi pregiati quali il nero del Belgio e il giallo di Siena e dalla cattedra episcopale che, con il pulpito e l’imponente organo, formano l’arredo barocco voluto da Mons. Spinelli. Nella zona absidale, un coro ligneo del XVI secolo. La volta a botte è decorata con dipinti raffiguranti un ciclo di trionfi, sempre del Miglionico.
Chiesa Rupestre di S. Margherita
Mirabile cripta completamente scavata nel tufo. Il suo interno, diviso in due campate da un arco carenato, presenta due altari, una celletta destinata all’abitazione del monaco, un cenacolo ed una serie di affreschi databili intorno al XIII sec. Nell’abside troviamo l’altare principale con l’affresco di Santa Margherita, nelle due fasce laterali sono rappresentate scene della vita della Santa. Alla sua destra, e alla sua sinistra, San Pietro e San Paolo, al centro della volta il Cristo Pantocratore. Nell’intradosso dell’arco absidale San Basilio e nell’archivolto San Nicola. Nella parte antistante sono rappresentate le scene di tre martiri: S. Andrea, S. Lorenzo e S. Stefano. Elemento predominante fra tutti è il tema del “monito dei morti”, affrescato nella cappella di sinistra. E’ rappresentata una famiglia in abiti da falconiere, affiancata da due orribilanti scheletri, in posizione eretta. Primo esempio in Europa di tale figurazione, che apre al ciclo delle cosiddette “danze macabre” (Jurgis Baltrušaitis – “Il Medioevo Fantastico”). Essa porta a Federico II, la consorte Isabella ed il figlioletto Corrado, quasi aggrediti dalla morte. Un messaggio, questo, consolatorio per il popolo, che mostra la vulnerabilità dell’Imperatore e della sua famiglia, come ogni comune mortale. La tesi, sostenuta dallo studioso napoletano, Pasquale Capaldo, che ha riscosso autorevoli consensi, in particolare oltralpe, trova riscontro in molti elementi dell’affresco: dalla barba rossiccia di Federico II, all’abito ornato da ermellino, ai tratti fisiognomici nordici di Isabella, ai capelli biondi di Corrado, oltre al falco, abiti e borse da falconiere, ornati da fiore a otto petali.
Cripta Madonna delle Spinelle
Venne alla luce in seguito ad una frana nel 1845. Interamente scavata nel tufo, presenta una forma esagonale con sei pilastri che sostengono un cornicione. Oggi rimane solo la zona absidale con un affresco della Madonna. Da questa chiesa mossero i “molti” Crociati capeggiati da Tancredi e Boemondo D’Altavilla in partenza alla volta della Terra Santa, da Melfi, come citato dal Tasso, nella “Gerusalemme liberata”.
Palazzo Vescovile – Museo Diocesano
Risale all’XI secolo, ma ha un aspetto barocco in quanto è stato rifatto nel ‘700 dai vescovi Spinelli e Basta. A tale secolo appartengono le ringhiere della balconata che corre lungo tutta la facciata e i tre portali. Nella corte, da ammirare una fontana con vasca circolare e l’ampia scalinata a doppia rampa che porta agli appartamenti e alle sale di rappresentanza, sempre del XVIII sec.
Tra gli ambienti più interessanti, i due Saloni degli Stemmi, dipinti tra il 1748 e il 1756 con gli emblemi dei vescovi che si sono succeduti sulla cattedra di Melfi e la Sala del Trono interamente affrescata con finte architetture, nelle quali campeggiano vescovi e allegorie. Seguono una serie di sale ospitanti oggi il Museo Diocesano, che conserva arredi e paramenti sacri in oro e argento a partire dal ‘700 e pinacoteca con tele risalenti sino al ‘500, Al piano terra Biblioteca con importanti volumi e pergamene cinquecentine. Di grande fascino il giardino all’italiana, al quale si accede dal palazzo, attraverso una scala di impostazione vanvitelliana, voluto dal vescovo Mario Rufino. Considerato uno dei più belli del Meridione, proprio per la ricchezza artistica del complesso, l’Episcopio di Melfi era conosciuto nell’Ottocento come il “picciolo Vaticano”.
Il Vulture e i laghi di Monticchio
Il Vulture è un massiccio montuoso di origine vulcanica che presenta una conformazione molto particolare. I suoi boschi vanno dai 500 metri in su e sono ricchi di vegetazione. I boschi sono abitati da tassi, istrici, lepri, volpi e da tante varietà di uccelli. Il monte, celebrato da Orazio, è compreso nei territori di Melfi, Atella, Barile, Rapolla, e Rionero in Vulture; tutti centri disposti ai piedi dell’antico vulcano spento. Domina la valle dell’Ofanto e presenta un territorio molto fertile ricco di svariate colture. Tra i frutti è rinomato un tipo di castagna detta “Marroncino di Melfi”. Numerosi i vigneti, dall’Aglianico alla Malvasia e al Moscato del Vulture. Altra ricchezza del massiccio sono le acque minerali ferrate, magnesiache e alcaline con molteplici indicazioni cliniche e fanghi termali, in località Monticchio Bagni, già conosciuti al tempo dei Romani. Ed ancora una vasta presenza di erbe officinali. Autentica rarità del Vulture è la farfalla notturna Bramea, che vive nella Riserva Naturalistica Orientata di Grotticelle, la cui presenza si ritrova solo in Cina Orientale. L’antica caldera del vulcano è oggi caratterizzata da due laghi di Monticchio, autentica perla naturalistica.