Home Mission Parchi Viaggi Eventi Almanacco Multimedia Contatti
nel parco Tommaso Landolfi

Gli Scenari

Pico, piccolo comune di circa tremila abitanti, è un suggestivo angolo della provincia di Frosinone, arroccato su una collina a ridosso di Monte Pota.
Uno dei testi fondamentali circa la storia del paese, redatto con dedizione e impegno da don Antonio Grossi Bianchini e pubblicato nel 1929, riporta questa dettagliata descrizione: “Sull'estremo lembo dell'antico Regno di Napoli, là dove questo confinava con lo Stato Pontificio, e proprio al nodo stradale della magnifica Civita-Farnese, che mette in comunicazione i paesi degli Appennini Centrali con il mare di Gaeta; sito su di un colle che dai Monti Ausonii si affaccia alla bella pianura del Liri, e che fu giudicato un punto strategico dal generale A. Lamarmora (1860), sorge a 194 m. sul mare, Pico grosso borgo col titolo di regia città ( decreto sovrano del 1° agosto 1802 ) di oltre 4.000 abitanti non contando i molti suoi figli emigrati. Capoluogo di mandamento, e perciò fino al 1890 sede di pretura e di un carcere mandamentale, appartenne fino a ieri, 1926, alla provincia di Caserta e al circondario di Gaeta, oggi alla nuova provincia di Frosinone e alla diocesi di Aquino. Confina ad oriente con Pontecorvo, a settentrione con San Giovanni Incarico, a ponente con Pastena e Lenola, a mezzodì con Campodimele. Dista dodici km. Dalla ferrovia Roma-Napoli.”L'origine del nome è oggetto di controverse discussioni; l'unica accezione più probabile è la derivazione dalla radice celtica “pic”, punta aguzza, forse per lo sperone su cui sorgeva il castello. Le prime testimonianze inerenti il paese, risalgono al 589 d.C. data dell'invasione dei Longobardi di Zotone, duca di Benevento che distrusse Montecassino, Pico, Pastena. Ufficialmente l'esistenza di Pico e del Castello, fatto erigere da Giovanni Scinto signore di Aquino, è attestata dalla formula Castrum qui nominatur Pika del 1049 e da questo momento la storia del paese si intreccia strettamente alla storia del suo castello, intorno alle cui mura si è sviluppato il primo nucleo abitativo.

Sul portale dell'Abbazia di Montecassino, fra tutti i possedimenti benedettini ivi riportati, viene menzionata la chiesa di Santa Marina di Pico, donata all’abate da G. Scinto e da sua moglie Alfarana nel 1049 (s.v. Fabiani, La terra di San Benedetto, 1968 pag. 155). Si conviene che il castello, oltre a rappresentare un caposaldo del confine tra il Ducato Romano e la porzione di Ducato Longobardo ricadente nella sfera cassinese, fungesse da raccordo tra il territorio della Flumetica e il mare.
La sopravvivenza, seppure a livello indiziario, di elementi longobardi sottolineano il valore del territorio di Pico, del suo borgo fortificato e di quello spazio geografico delimitato dove una intera comunità umana ha costruito, nel corso della storia, il proprio senso di appartenenza.

Attualmente il centro storico ricorda una tipica strutturazione di età medioevale, con strade strette, regolari, concentriche, collegate da scalinate, che si snodano attorno al castello e una cinta muraria interrotta da tre porte per l'accesso al centro abitato, di cui resta intatta quella di San Rocco. La fortificazione ha una data storica certa in quanto esistono numerosi documenti antichi nei quali sono riportati riferimenti al Castrum e all’Oppidum Pica, quest'ultima citazione risale al 1126 (Annales Casinenses seu Anonymi Casinensis Chronicon).

Dopo varie contese e baronie, il castello dal 1542 al 1547 fu feudo di Ottavio Farnese, quando Pico, sotto Carlo III entrò a far parte del Regno di Napoli e nel 1742 fu acquistato dalle locali famiglie Conti e Landolfi ed i terreni feudali furono venduti ai privati cittadini.
Con l'Unità d'Italia il paese divenne un comune della provincia di Caserta “terra di lavoro” e solo nel 1927 la giurisdizione passò alla neonata provincia di Frosinone.
L'esistenza dei cittadini di Pico fu sconvolta durante la seconda guerra mondiale; i lunghi mesi del fronte fermo a Montecassino segnarono il paese che subì l'occupazione dei tedeschi prevalentemente nel centro storico ed a causa dei ripetuti bombardamenti, i cittadini furono costretti a riparare in montagna. Alla fine del conflitto, con sforzo, furono ricostruite le case e il tessuto sociale.

"Noi contemplavamo quello squallore e quella rovina, ma il peggio, come ho detto, era che non riconoscevamo l'aria di casa nostra. Eppure, anche allora, lo sguardo mi corse subito ai miei tre alberi." (Quattro casce, Ombre, 1954 ).

Unire la valorizzazione del borgo di Pico alla figura di Tommaso Landolfi, la cui opera singolare è impregnata di umori, immagini, fantasie legate alla vita e ai personaggi del paese, è un volere richiamare alla memoria storica e letteraria un genio del novecento, che ha avuto i natali a Pico.
(...) Siamo insomma a casa nostra. Già si profilano all’orizzonte le bizzarre e possenti sagome degli Aurunci (dietro cui è il mare di Formia e di Gaeta, i quartieri settentrionali della città di Napoli), ferite dagli apprestamenti e dal corso di un dannato acquedotto, già si intravede quel piccolo monte Pote che getta nondimeno un’ombra immane sulla mia casa. (…) I contrafforti di Frosinone, Se non la realtà

(…) una chiostra di montagne lo divide dal mare e che ha alle spalle una vallata abitatissima, una dozzina di corriere incrociano a varie ore nella sua parte bassa e lo allacciano al capoluogo, alla capitale, a centri agricoli o commerciali. (…) Il villaggio di X e i suoi abitanti, Se non la realtà (…) immaginate piuttosto un minuscolo paese, un borgo sperduto tra le montagne. Al tempo della mia storia io vivevo laggiù, e del resto (aggiunse sorridendo) è là che sono nato. (…) La notte provinciale, La spada (…) Ero in città, una volta d’autunno, e d’un tratto fui preso da una furiosa nostalgia: sai tu di cosa? Ma di nient’altro che di questo cortile cosparso delle foglie gialle e marce di queste acace, veduto di dentro a questa sala, traverso i vetri di questa porta, come ora lo vediamo. (…) (Il villaggio di X e i suoi abitanti, Se non la realtà)

LARGO SAN ROCCO (…) Le belle contadine risalivano a frotte il vicolo verso la piazza chiacchierando, o piuttosto cantando nella loro lingua, animatamente fra loro. Da qualche anno avevano abbandonato, i dì di festa, la calzatura locale, una specie di molle coturno, e portavano sonore scarpette col tacco basso sotto alle vesti pieghettate e ampie alla foggia antica, ma assai più corte, da scoprire i polpacci robusti; (La pietra lunare)

LARGO CARBONARO (…) Nella parte più alta del paese del P., ai piedi delle rovine del castello e precisamente sul largo detto Carbonaro in ricordo di alcuni supposti patrioti che vi abitarono nei tempi passati, ciascuno può ancora vedere, un po’ in disparte nella sua aria rannuvolata, un vecchio portone senza battenti, basso e rincagnato, ingresso d’un palazzotto nero dagli anni. (La pietra lunare)

TORRE DELL’OROLOGIO (…) un angolo di vista inconsueto sulla parte superiore del paese. Da oltre una distesa di tetti spunta la chioma di un lauro, un chioccolio di galline si fa udire assai vicino, si scorge l’orologio sulla fronte della torre, tutto pare sopraelevato e pensile; (…) (…) l’unica torre rimasta in piedi con, sulla fronte, il grande occhio dell’orologio comunale. (…) (La pietra lunare)

 LARGO SANTA MARINA (...)Alla fine tutti se ne andarono e si sentì la musica della processione che passava nel vicolo. Io avevo determinato di non affacciarmi; ma girai qualche minuto per la casa e non sapevo che fare. Allora mi affacciai. La santa, una piccola santa vestita da monaca colla faccina di cera e un bambino di cera piccolo piccolo ai piedi, era già sotto la mia finestra. La potevo quasi toccare colla mano. Non so chi fosse; me lo avranno anche detto, ma l’ho dimenticato. Forse era Santa Marina, (…) (Maria Giuseppa, Dialogo dei massimi sistemi)

Di Eugenio Montale è invece Elegia di Pico Farnese, il quintultimo componimento raccolto nelle Occasioni.
Fu composto nel marzo del 1939, poco dopo un soggiorno montaliano presso la vil-la di Tommaso Landolfi a Pico Farnese. Montale era già stato ospite nella residenza deiLandolfi sul finire dell’estate del ’37.

Le pellegrine in sosta che hanno durato tutta la notte la loro litania s’aggiustano gli zendadi sulla testa, spengono i fuochi, risalgono sui carri. Nell’alba triste s’affacciano dai loro sportelli tagliati negli usci i molli soriani e un cane lionato s’allunga nell’umido orto tra i frutti caduti all’ombra del melangolo. (…)

Strade e scale che salgono a piramide, fitte d ‘intagli, ragnateli di sasso (…) si svolge a stento il canto dalle ombrelle dei pini, e indugia affievolito nell’indaco che stilla su anfratti, tagli, spicchi di muraglie (…) Elegia di Pico Farnese, Le Occasioni di
E. Montale)

Immagini: Matteo Conti e studi fotografici Palliotta

 
Creazione Siti WebDimension®